Bambini in Rete: i rischi più insidiosi

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L’Italia è proverbialmente il Paese dei poeti, dei santi e dei navigatori. Da smartphone. Il Belpaese è infatti al primo posto in Europa per diffusione di telefoni cellulari, e questo si sapeva. La notizia è che gli utenti con in mano un telefono intelligente sono sempre più giovani: anche se i pediatri sostengono che bisognerebbe limitarne l’uso e non regalarlo prima dei 10 anni di età, secondo i dati Censit il primo cellulare si ha già a sette anni. Cosa ancora più sconcertante, il 51% dei ragazzi di 10 anni è online, anche sui social, senza che nessuno controlli. Il fatto che i bambini siano online in età sempre più precoce è confermato anche dalla più autorevole fonte europea sul tema, la ricerca EU Kids Online: negli ultimi anni si è assistito a un boom delle connessioni a Internet anche per i bambini sotto gli 8 anni. La maggioranza dei piccoli tra i 6 e gli 8 anni ha accesso alla Rete. E questo ormai dal “lontano” 2007. Peccato che tutti i social, WhatsApp compreso, non possano essere usati prima dei 13 anni e che questa informazione sia ignorata dalla gran parte delle mamme e dei papa (vedi articolo sull’età minima WhatsApp qui).

Considerare i bambini come “nativi digitali”, quindi pronti a gestire il mondo della Rete, è un errore comune. È vero che i bambini hanno molta più dimestichezza di noi adulti con dispositivi touch in mano, tanto da governare app e YouTube senza nemmeno saper leggere; ma è altrettanto vero che spesso mancano di competenze digitali, in gergo “digital literacy”. Non possiamo pretendere che un bambino di 8 anni, a cui è appena stato regalato uno smartphone per la Prima Comunione, sappia padroneggiare questi strumenti con l’approccio critico di un adulto, che cosa siano privacy e sicurezza o evitare di finire nei pasticci.

I rischi ci sono, inutile negarlo. Quasi tutti parlano del fenomeno del cyberbullismo, l’unico dei problemi che ha guadagnato lo status di problema nazionale, tanto da finire in una legge pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale nel maggio del 2017. La legge si pone l’obiettivo di contrastare questo fenomeno in tutte le sue manifestazioni (sono diverse: dagli insulti online all’esclusione da gruppi WhatsApp, dal furto di identità allo stalking via Web), di certo in termini di prevenzione ma anche di intervento risolutore. In concreto: sia la vittima di cyberbullismo, nel caso abbia compiuto almeno 14 anni, che i suoi genitori possono inoltrare al gestore del sito o del social dove si è compiuto il reato “un’istanza per l’oscuramento, la rimozione o il blocco di qualsiasi altro dato personale del minore, diffuso nella Rete Internet”. Se il destinatario della richiesta non provvede entro 48 ore, l’interessato può rivolgersi al Garante della Privacy, che interviene direttamente entro le successive 48 ore.

Anche la scuola deve fare la sua parte. In ogni istituto sarà individuato, tra i professori, un referente per le iniziative contro bullismo e cyberbullismo e il preside dovrà informare tempestivamente le famiglie dei minori coinvolti in atti di bullismo. La legge prevede inoltre che alle iniziative in ambito scolastico collaborino anche polizia postale e associazioni territoriali e, infine, che sia estesa al cyberbullismo la procedura di ammonimento prevista in materia di stalking.

Il problema è che il cyberbullismo è solo uno dei problemi che i ragazzi online potrebbero incontrare. Un altro è il sexting, crasi delle parole inglesi “sex” e “texting”: in pratica l’invio e la ricezione tramite telefonino di immagini di natura sessuale. Di solito il meccanismo è questo: lui e lei si mettono insieme. A 13 o 14 anni sembrano vivere la storia della vita, che dura… un mese. Lui le chiede delle foto osé. Lei decide di mandarle perché si fida e perché, in alcuni casi, si tratta di un surrogato del sesso, a volte una palestra per misurarsi con l’immagine del proprio corpo sessuato. Lei lascia lui; lui si vendica inviando le immagini ad amici, alla classe (se i video sono a sfondo sessuale, si parla di “revenge porn”). Oppure lui condivide le immagini con gli amici per vantarsi della “conquista”. A lei crolla il mondo, con conseguenza psicologiche e sociali devastanti; in alcuni casi si è arrivati al tentativo di suicidio. Per un approfondimento sul sexting, leggi l’articolo qui.

Un altro problema grave, ma largamente sottovalutato, è quello della privacy. I ragazzi usano smartphone e tablet senza pensare alle conseguenze delle loro condivisioni, online o su WhatsApp. Non hanno idea del fatto che quello che scrivono – una litigata per il calcio o un insulto alla professoressa in un gruppo riservato – e postano – la foto del compagno nello spogliatoio o un video demenziale – restano online per sempre. Tutte le volte che si preme il tasto Invia, il contenuto è perso, non se ne ha più il controllo. Lo sa bene Nolan O’Brien, che qualche anno fa perse il posto di lavoro (e la faccia), pubblicando su Facebook l’immagine di sé che leccava dei tacos prima di servirli ai clienti di un ristorante Taco Bell americano.

Un ottimo esercizio da fare con i ragazzi è il cosiddetto “ego-surfing”: cercare sé stessi su Google. Così facendo molti ragazzi scoprono contenuti innocui – la foto della propria squadra di pallavolo sul giornale locale – e altri, purtroppo, meno gradevoli – una condivisione su Instagram del compagno che voleva fargli uno scherzo.

Altro problema che inquieta molto i genitori è l’adescamento. Il cosiddetto “child grooming” può avvenire in diversi contesti: dai social network ai giochi online, dai forum alle app di dating. Segue generalmente cinque fasi. Prima, l’amicizia iniziale; seconda, risk-assessment: serve all’adescatore per verificare quanto la vittima sia vulnerabile, accorta o disposta a scoprirsi, puntando ad avere una relazione diretta, per esempio mediante lo scambio dei numeri di telefono e, successivamente, in via esclusiva; terza, la costruzione del rapporto di fiducia che avviene attraverso uno scambio di confidenze intime e personali; quarta l’esclusività, attraverso la quale l’adescatore punta a tagliare fuori genitori e amicizie dal rapporto privilegiato, ottenendo così il silenzio della vittima; ultima la fase della relazione sessualizzata con la richiesta di immagini, video o di incontri.

Sempre a proposito di sesso online, un altro grande tema è quello della facilità di accesso alla pornografia online. Uno studio inglese, condotto dall’Office of the Children’s Commissioner for England, della NSPCC (National Society for the Prevention of Cruelty to Children) e della Middlesex University, ha rivelato che oltre la metà (53%) dei ragazzi tra gli 11 e i 16 anni si è imbattuto nel porno online. Di questi “solo” il 19% ha cercato quei contenuti volontariamente. A questo proposito va detto che la tecnologia è anche la soluzione, non solo il problema: si possono usare, anche sui telefonini come sui PC, delle funzioni di parental control (vedi per esempio Tim Protect oppure Rete Sicura di Vodafone), per consentire l’accesso a contenuti e modi di utilizzo appropriate, sia per un adolescente che per un bambino più piccolo. È possibile agire su differenti categorie di contenuti. Per esempio, i contenuti relativi a siti di appuntamenti, giochi d’azzardo, droghe, violenza o pornografia sono bloccati di default per tutti i minorenni. È possibile anche porre dei limiti temporali all’uso degli strumenti, e anche dei “limiti temporali selettivi”: per esempio si può scegliere di consentire l’accesso a Instagram solo per un’ora al giorno e non porre alcun limite a siti utili per lo studio, come Wikipedia. Questo consente anche di porre un limite al problema della dipendenza dalla Rete, che colpisce maggiormente i ragazzi tra i 13 e i 20 anni (dati Istat).

Dopo questa carrellata di rischi della Rete, resta la questione principale: come dovremmo agire noi genitori? Posto che, a detta di tutti gli esperti, proibire non è mai una strategia vincente, la ricercatrice Alexandra Samuel (www.alexandrasamuel.com) ha individuato tre categorie di approccio al “digital parenting”: ci sono i “digital enablers”, che pongono pochissime restrizioni su come i bambini usano i dispositivi; ci sono poi i “digital limiters” che cercano in modo attivo di limitare l’uso dei dispositivi da parte dei bambini; infine ci sono i “digital mentors”, che tentano attivamente di partecipare all’utilizzo dei dispositivi assieme ai figli. Quest’ultimo approccio, raccomandato per esempio da esperti come Alberto Pellai, pare essere il più funzionale, sempre rispettando i “confini” dei ragazzi.

Il nostro compito di mamme e papà sarà supervisionare, dare il buon esempio e soprattutto condividere l’uso degli strumenti. Possiamo chiedere come si usano le chat di WhatsApp, quali sono i contenuti più interessanti o sospetti visti durante la giornata e magari imparare alcune regole di base che i ragazzi conoscono e noi genitori no (vietato l’off-topic, niente catene di sant’Antonio, distinguere sempre tra quel che è pubblico e quel che è privato). Affiancare i ragazzi vuol dire entrare nel loro mondo, conoscere nuovi strumenti in voga. Per esempio: quanti di noi genitori conoscono il nuovo fenomeno social-musicale Musical.ly?

 

Questo articolo è stato pubblicato sul N. 2 del 2017 de “La Casana”, periodico della Banca Carige di Genova. 

Qui l’articolo in PDF qui:

I_bambini_in_Rete_rischi_Gianluigi_Bonanomi_Casana

 

Per organizzare un serata sui pericoli della Rete (qui la scheda del corso) nella tua scuola o per la tua associazione, scrivimi.

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