Farmacie tra social selling e content marketing [intervista per Farmaciapotenziata.it]

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Questo articolo è stato pubblicato su Farmaciapotenziata.it nell’ottobre 2020

Farmacie tra social selling e content marketing

Social selling non significa vendere con i social, ma promuovere cosa si è capaci di fare attraverso creazione di nuove relazioni con i propri utenti. Scopriamo di più insieme a Gianluigi Bonanomi, formatore sulla comunicazione digitale.

Cosa si intende per social selling?

Prima di parlare di trucchi e buone pratiche vanno smontati i facili entusiasmi: fare social selling non vuole dire “vendere online con i social, come qualcuno potrebbe pensare. Al limite quello potrebbe essere “social commerce”, e molte farmacie già lo fanno da anni. Social selling è un misto di tecniche di posizionamento, contenuti e relazioni: di solito questa etichetta si usa prevalentemente per i business B2B, ma ormai questa distinzione è obsoleta. I social servono per far vedere che cosa fai, come lo fai, per chi lo fai e poi per sfruttare la leva dei contenuti per dare valore e creare (o tenere) le relazioni. Ecco la parola chiave: le relazioni. Del resto, parlando di “social”…

Esiste un target di cliente privilegiato per questa attività?

In realtà no. Si può fare social selling per tutti e con tutti. Seguo aziende B2B che si occupano di ventilazione industriale, così come aziende del mondo ho.re.ca (Hotellerie-Restaurant-Café). E farmacie, appunto. Queste ultime dovrebbero usare i social, come dicevamo, per le relazioni: intrattengono con video di alleggerimento, ma soprattutto educano con contenuti di valore sui temi più disparati: prevenzione, consigli alimentari, iniziative, contest, testimonianze…di tutto! Dico “dovrebbero usare” perché spesso non è così: proprio perché obnubilate dall’idea di vendere su Facebook e Instagram, riempiono le bacheche di post di prodotto e offerte. Ma la gente non segue i social per farsi “rifilare” i prodotti. Le persone usano i social – quei social – per svago e per tenere le relazioni. Non possiamo forzare la mano. Il processo è lungo e articolato.

Qual è il know-how necessario per fare social selling con successo?

Credo che l’uso dei social richieda competenze sempre più specifiche da comunicatore digitale: saper comunicare è la base, ma non basta. Bisogna coniugare le proprie capacità creative ed empatiche con l’uso di strumenti nuovi: quindi bisogna sapere creare piani editoriali, grafiche e infografiche (per chi non sa farlo, si può sempre usare strumenti come Canva.com), video magari con sottotitoli, content management systems come WordPress per il sito web, padroneggiare le metriche e gli analytics e così via. Credo inoltre che il social seller sia anche un “negoziatore digitale”: chi sa interpretare le comunicazioni online, scrivere un messaggio efficace, rispondere a una contestazione e così via.

E cosa è indispensabile avere a livello di infrastruttura digitale o di backoffice/magazzino?

Credo che più del magazzino o del backoffice serva un ottimo gestionale e un sistema di comunicazione integrata (si parla di convergent marketing: il flusso di comunicazione dovrebbe riguardare dai social agli Sms, dalle newsletter al blog). Il social seller potrebbe collegare le sue attività di comunicazione con il sito Web e il gestionale per tramutare davvero tutto quello che ci siamo detti prima in ordini e vendite. Per esempio, potrebbe produrre dei contenuti gratuiti che generano contatti, poi alimentare quei contatti con newsletter nelle quali inserire, senza esagerare, offerte o coupon da riscattare grazie all’e-commerce. Questo, in gergo, è il “content marketing”, attività che si sposa benissimo con il social selling.


Considerando la peculiarità dei prodotti venduti dalla farmacia, è ipotizzabile che essa faccia social selling?

Se, come abbiamo visto, fare social selling non è necessariamente un’attività appannaggio del commerciale o del banconista, chiunque può farlo. È però difficile portare un esempio di social selling fatto bene perché dovremmo parlare di singoli che si muovono bene, leggere i loro messaggi ai clienti e così via. Piuttosto posso segnare un buon esempio di content marketing: la farmacia Di Nardo (www.farmaciadinardolabrozzi.it) ha un buon sito con blog ed e-commerce, ma soprattutto lavora benissimo con i contenuti. Per esempio, ha realizzato una serie di video su temi come la secchezza vaginale o l’alimentazione. Oppure articoli sulla caduta dei capelli, in questo caso collegati a meccanismi di sconti e prenotazioni per l’analisi del capello.

Quali sono i limiti per la farmacia in questo tipo di attività?

I limiti sono quelli di volere tutto e subito: le attività social sono fondamentali, ma non si può pretendere di costruire relazioni e fiducia da un giorno all’altro. Un altro limite è il non voler investire, intendo tempo e risorse ma anche denaro: a volte bisogna capire che Facebook è uno strumento a pagamento, e la visibilità costa. Un ultimo limite, spesso il principale: la mancanza di competenze in termini di comunicazione digitale; quanti farmacisti hanno fatto un corso che, tra le altre cose, insegni a rispondere alle critiche online?

Personal branding e digital reputation [puntata di SeiLaTV del 8/10/20]

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Hacker Space, storia della bevanda che ha hackerato RedBull: intervista ad Alessandra Damiani [intervista per StartUP News]

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Questo articolo è stato pubblicato su StartUP News il 13 ottobre 2020.

Hacker Space, storia della bevanda che ha hackerato RedBull: intervista ad Alessandra Damiani

Il marchio Hacker si distingue da RedBull o altri appunto per il suo carattere, del quale la maschera stessa è il simbolo: Anonymus non è infatti un qualcosa di commerciale; è un gruppo che prende una certa posizione politica manifestandosi sovversivamente, spesso ponendosi anche contro il sistema.

Un amico, un hacker etico, qualche giorno fa mi ha chiesto:

– Lo sapevi che esiste una bevanda hacker?
– Una bevanda hacker? In che senso?

Mi ha fatto conoscere Hacker Space, un energy drink con disegnata, sulla lattina, la celebre maschera “Anonymous” di Guy Fawkes.
Volevo sapere di più: – Ma tu li conosci? Così mi ha presentato Alessandra Damiani, responsabile delle vendite, e così è nata questa intervista.

Ciao Alessandra, mi parli un po’ di Hacker Space?

Certo! L’azienda Dr. Heidrich ha sede a Lipsia, in Germania, e si occupava in principio di import-export di diversi tipi di prodotti. L’anno scorso la titolare, di nazionalità ceca, sedeva in un bar con un paio di amici e, detto in breve, ha avuto l’idea di ”hackerare” la ricetta di RedBull per creare un energy drink che fosse più conveniente ma anche più sovversivo. Ora sta nascendo una nuova azienda con sede a Berlino, la HASPACO (Hacker Space Company), che si occuperà esclusivamente dei prodotti Hacker.

In cosa si differenzia rispetto a RedBull?

Il marchio Hacker si distingue da RedBull o altri appunto per il suo carattere, del quale la maschera stessa è il simbolo: Anonymus non è infatti un qualcosa di commerciale; è un gruppo che prende una certa posizione politica manifestandosi sovversivamente, spesso ponendosi anche contro il sistema. Allo stesso modo, Hacker si pone contro il “sistema” degli energy drink ed esce sul mercato in maniera piuttosto sovversiva rifiutando di cedere a grassi investimenti pubblicitari come quelli della concorrenza (che poi ricadrebbero anche sul prezzo, come nel caso della concorrenza), rendendosi in questo modo un prodotto ben più accessibile e di carattere forte, prendendo dunque una netta posizione politica.

Chi è il consumatore tipo?

Hacker è per tutti coloro che vivono un po’ ai limiti del sistema, che siedono tutta la notte al computer, che magari non fanno neanche sport: insomma un pubblico ben diverso da quello di Redbull o Monster, con i quali i “nerd”, che pure hanno spesso bisogno di restare svegli, non si identificano in nessun modo.

Dove si trova Hacker?

Attualmente, oltre che in Germania, si trova in Vietnam, Cina, Ungheria, Francia, Myanmar, Svizzera, Austria e Russia. In questi posti l’’azienda ha venduto, in un anno, diversi Milioni di lattine, senza aver speso un euro in pubblicità!

E tu, Alessandra, come entri in questa storia?

Sono un’abruzzese DOC, cresciuta a formaggio fritto e arrosticini; dopo aver sostato per il mio percorso di studi all’Università di Bologna, mi sono trasferita a Lipsia per un tirocinio in camera di commercio. Lì ho conosciuto la titolare di Hacker, che vuole entrare anche nel mercato tedesco e italiano, e ha bisogno di una mano.

Qual è la tua strategia di comunicazione per Hacker?

Appena iniziato a lavorare per l’azienda, ho ritenuto necessaria innanzitutto la costruzione di un sito Web, al momento è un work in progress, e poi un minimo di presenza sui social media, in particolare Instagram. Lavoro per l’azienda da un paio di mesi e il lavoro da fare è tanto: sono decisissima a entrare nel mercato italiano anche perché noi mediterranei, che beviamo meno gassato e meno dolce dei nordici, possiamo apprezzare ancora di più Hacker che è appunto meno dolce, meno frizzante e contiene molte più vitamine della concorrenza. Ho mandato una dozzina di cartoni di prova in Italia e le persone che hanno provato i nostri energy, così come la nostra cola limo, sono impazzite. Insomma, è un qualcosa che può funzionare.

Hacker Space Startup-News

Ma si parla solo di energy drink?

Dopo gli energy drink abbiamo inserito altri prodotti, come le pasticche di caffeina e le classiche zuppe istantanee che vanno fortissimo in Est Europa, ma che non porterei nel mercato italiano per ovvie ragioni… Al momento stiamo producendo in collaborazione con un’azienda italiana i croissant Hacker alla fragola, al cioccolato e – attenzione, attenzione! –  al formaggio: i nordici non aspettano altro per la loro colazione salata.

Hippo e l’algoritmo della fiducia: intervista a Massimiliano Baiocco per StartUP-NEWS

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[Questo articolo è stato pubblicato su StartUP-NEWS il primo ottobre 2020]

Hippo e l’algoritmo della fiducia: intervista a Massimiliano Baiocco

Non sarebbe tutto più semplice se esistesse un sistema per misurare la fiducia tra le persone e migliorarne le relazioni? Ecco, questo si è tradotto in Hippo.

Hippo è un’app che permette di applicare, in concreto, i principi del nudging e delle scienze comportamentali alle interazioni di ogni giorno, lavorative e non. L’ha ideata Massimiliano Baiocco: gli abbiamo chiesto qual è stata la genesi del progetto e come l’ha concretizzato.

Ciao Massimiliano, ci racconti in breve che cosa è Hippo?

Hippo è prima di tutto un sogno e, al tempo stesso, la risposta a un problema. Nella mia carriera ho ricoperto tutti i ruoli: da dipendente a manager, da imprenditore a startupper. Mi sono sempre reso conto che quello che conta in qualsiasi contesto lavorativo – ma direi nella vita in generale – è la relazione che instauri con gli altri. Anzi, ancora di più: la fiducia. Non nascondo che mi sono spesso trovato nella situazione di avere problemi da questo punto di vista. Allora, un giorno, mi sono detto: non sarebbe tutto più semplice se esistesse un sistema per misurare la fiducia tra le persone e migliorarne le relazioni? Ecco, questo si è tradotto in Hippo. L’acronimo sta per Help Improve Permently Positive Organisation, in poche parole: ricercare la positività nelle persone che operano in ambienti positivi.

Facciamo un passo indietro: ingegnerizzazione e misurazione delle relazioni non è il fulcro di tutti i social, da Facebook a LinkedIn?

Sì, ma in quei casi manca qualcosa. Prendi il social selling index di LinkedIn: la misura della capacità di costruire relazioni riguarda azioni basilari (cercare collegamenti, mandare messaggi, commentare i post altrui) ma non misura la qualità delle relazioni che poi si traducono in fiducia! Oppure prendi Facebook: il fine dell’algoritmo non è migliorare le relazioni, ma misurare i legami per capire a chi mostrare un contenuto o, in ultima istanza, innescare conversazioni al solo fine di farti rimanere all’interno della piattaforma il più a lungo possibile. Basta dare un’occhiata al cupo “The social dilemma” su Netflix per rendersene conto. Per me questo è inconcepibile: non vi è alcuno scopo di miglioramento dell’individuo in questi sistemi.

Hippo invece si pone l’obiettivo di valorizzazione dell’altro attraverso l’incremento del “capitale umano”, a partire dal miglioramento delle interazioni che abbiamo con la nostra rete sociale, grazie per esempio a meccanismi di nudging, pungoli, gamification e quindi dinamiche ludiche. Bisogna cambiare le carte in tavola nel mondo del business: rivoluzionare i modelli di management, un nuovo modo di concepire le organizzazioni, le imprese. Un nuovo paradigma.

Entriamo un po’ nel dettaglio: come funziona Hippo?

Hippo è una piattaforma di analisi predittiva dei comportamenti, in grado di coniugare e allineare perfettamente sia una nuova cultura (intendendo valori e comportamenti) sia le strutture (intendendo metodi, processi e appunto tecnologie abilitanti). Per venire al dunque tutto questo si configura come piattaforma (dashboard) e app da usare quotidianamente.

A seguito di ogni interazione possiamo restituire, e ricevere, iNUDGE ovvero pungoli. Hai appena finito una riunione tra colleghi, un confronto fra amici, una telefonata di lavoro? Attraverso la app puoi esprimere le sensazioni relative all’interazione, basandoti su quattro cardini: motivazione, credibilità, capacità e risultati. L’altro, come detto, può fare lo stesso con te.

È come dare giudizi?

Assolutamente no! Hippo restituisce nudge preziosi, spunti e consigli “gentili” per migliorare i comportamenti, sulla base delle sensazioni ed emozioni percepite da te e dai tuoi interlocutori in qualsiasi tipo di interazione vissuta nella quotidianità. A differenza del feedback, che ha insito in sé un giudizio, e che ha come obiettivo quello di rilevare un miglioramento della performance, donare e ricevere un iNUDGE vuole dire aumentare la consapevolezza di te stesso attraverso suggerimenti che doni e ricevi, aiutando a migliorare i comportamenti quotidiani. Non c’è nessun obbligo, né spazio per valutazioni positive o negative, ma solo gratitudine per qualcosa di oggettivo e costruttivo che da soli non sempre riesci a individuare. Per intenderci esistono due tipi di iNUDGE: di conferma (+) e rafforzativi (-).

Come rendere tutto questo concreto? Dal punto di vista pratico, se la piattaforma rileva se abitualmente inizi il lavoro al mattino o la riunione del pomeriggio con umore grigio, e potrebbe darti delle dritte – e perché no, anche dei contenuti – per strapparti un sorriso! Chiaramente la piattaforma sarà arricchita sempre più di stimoli, contenuti mirati, moduli formativi personalizzati e così via.

Ma dietro tutto questo c’è un modello?

Assolutamente sì, ed è coerente con le più sentite esigenze di “identity shapling”, ovvero un nuovo paradigma di concepire le persone e le organizzazioni in genere. L’ho battezzato “H-shaped model” (e stiamo registrando il brevetto internazionale): modello a forma di H che richiama l’ormai classico modello a T delle competenze generaliste e specialiste. Torno ai quattro cardini che ho menzionato prima, e ne aggiungo uno. Ogni persona può essere “rappresentata” attraverso un grafico a forma di H che racconta il percorso personale, sulla base di quattro più uno cardini. Rispetto ai già menzionati motivazione, credibilità, capacità e risultati, aggiungo anche l’energia.

In che senso l’energia?

È un concetto nuovo o quantomeno poco praticato in ambito business: quando interagiamo, inviamo e riceviamo energia (nulla di new age o metafisico, per carità!). Alla base della Hippo app c’è proprio la rilevazione e misurazione di questa energia (o stato di flow), ma soprattutto la condivisione di sensazioni e sentimenti, addirittura la richiesta di aiuto per uscire da uno stato di energia basso. Anche qui si può dare o ricevere. Hai notato che il collega è giù di tono? Puoi aiutarlo, e anche l’app ti aiuta a farlo. Qui entra in campo l’innovazione: i più innovativi modelli di intelligenza artificiale aiutano interrogando l’utente, con domande mirate, per comprendere il suo stato.

Per chi risulta ideale l’app Hippo?

Partendo dal presupposto che la fiducia sarà la nuova moneta dell’imminente futuro per chiunque, Hippo è una soluzione utile ai singoli, ma soprattutto alle nuove organizzazioni che dovranno riprogettare i loro modelli organizzativi a partire dalle persone. Piattaforma e app contribuiranno a rendere perseguibile, in pratica, quello che oggi è poco più che un mantra spesso senza fondamento: “mettere le persone al centro”…

Sappiamo che Hippo è in fase di sperimentazione, quando sarà sul mercato?

A oggi abbiamo più di 500 “hipper”, persone che si stanno aggregando attorno al manifesto di Hippo. Da oltre un anno mi stanno aiutando, da un lato a correggere gli inevitabili bug – data la straordinaria complessità tecnologia che caratterizza la nostra soluzione – dall’altro a migliorare la UX, la user experience.

Stiamo ultimando le ultime verifiche in termini di GDPR, anche a livello internazionale, e soprattutto stiamo implementando le ultime funzionalità che garantiranno ai nostri utenti che mai nessuno avrà accesso ai dati personali. Per rispondere concretamente alla domanda: contiamo di rendere disponibile la soluzione entro dicembre di quest’anno (2020).

In conclusione, puoi regalare qualche dritta agli startupper che hanno tanto bisogno di costruire relazioni positive?

Per gli startupper sarà fondamentale conoscere il “trust index” delle persone con cui entreranno in contatto. Stiamo entrando in un nuovo paradigma che mi piace definire “economia della fiducia”, che sarà governata da una semplice equazione: > FIDUCIA = > VELOCITÀ x < COSTI.

La seconda dritta che regalo a tutti i sognatori (“startupper” mi piace poco) è che il tempo è la risorsa più preziosa alla quale prestare attenzione: non va assolutamente sprecato. Attraverso il trust index posso rendermi conto del livello di fiducia che l’interlocutore è in grado di trasmettermi, e decidere quindi se investire del tempo nel coltivare questa relazione.

Se nella mia esperienza personale avessi avuto la Hippo app, sicuramente non avrei investito tempo e denaro in relazioni che poi si sono dimostrare sterili, sottraendo energia preziosa.

Advergame, cosa sono? La mia intervista a Marco Mignano di Gladio Games per StartUp News

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[Questa intervista è stata pubblicata su StartUp News]

Advergame, cosa sono? Intervista a Marco Mignano di Gladio Games

Gli advergame sono dei veri e propri strumenti per pubblicizzare l’azienda, l’idea è quella di raggiungere più persone possibili facendole divertire e in base alle meccaniche di gioco si possono targettizzare il pubblico di riferimento

Gladio Games si occupa di advergame: di che cosa si tratta?

Negli ultimi anni il settore dei videogiochi è esploso. Il fatturato dell’industria dei videogiochi supera quello del cinema sommato a quello della musica. Questo è possibile grazie alla diffusione degli smartphone, che insieme alle console ci danno la possibilità di accedere a un bacino di utenza che raccoglie svariati miliardi di utenti.Quello che molte aziende stanno iniziando a capire è che il mondo dei videogiochi, oltre a essere dedicato all’intrattenimento, può servire per pubblicizzare la propria realtà e i propri prodotti in maniera ultra innovativa e non invasiva. Noi facciamo proprio questo, realizziamo prodotti videoludici che permettono alle aziende di pubblicizzare se stesse e i propri prodotti. Come? Andando oltre la gamification! Utilizziamo le vere meccaniche che sono alla base dei videogiochi per pubblicizzare le realtà in maniera innovativa. Per esempio possiamo premiare gli utenti con ricompense reali e virtuali per aver raggiunto un certo livello, oppure ricompenseremo l’utente con monete virtuali per leggere messaggi informativi legati all’azienda, così da generare un engagement pazzesco tra i giocatori e l’azienda dietro l’advergame. La caratteristica dei nostri prodotti è che sono app standalone che si possono scaricare in autonomia dagli store e non Web app. In questo modo possiamo sprigionare appieno la potenza dei device e creare dei prodotti unici e fatti su misura in base alle esigenze del cliente.

Marco Mignano Gladio Games Startup-News

Marco Mignano, founder di Gladio Games.

Qual è il modello di business?

Ci piace vincere insieme al cliente, per questo ci facciamo totalmente carico dei costi di sviluppo degli advergame. In altre parole: lo facciamo gratis. Quello che chiediamo è che l’azienda investa del budget per pubblicizzare l’advergame, mentre noi monetizziamo inserendo la pubblicità non invasiva all’interno dell’advergame stesso. Praticamente chiediamo all’azienda di investire soldi per pubblicizzare se stessa. Questo ci permette di creare dei prodotti di una qualità superiore alla media, anche perché se così non fosse, noi non riusciremo a monetizzare il prodotto.

Ci piace vincere insieme al cliente, per questo ci facciamo totalmente carico dei costi di sviluppo degli advergame. In altre parole: lo facciamo gratis

Puoi raccontarci qualche caso di successo?

Il nostro ultimo advergame Missione Pianeta è stato sviluppato per Legambiente, con l’obiettivo di pubblicizzare la loro campagna “Tartalove”. L’app ha realizzato migliaia di download nei primi giorni, siamo ad oltre 200 recensioni a 5 stelle solo su Android e su iOS sotto la categoria “famiglia” siamo entrati ufficialmente tra le top 50 app sullo store. Ma oltre i prodotti di Gladio Games, sono molte le aziende che hanno deciso di investire in questi prodotti: per esempio aziende come Nike, Kinder o Renault hanno deciso di realizzare i propri advergame.

Che differenza c’è tra game e gamification, lato business?

La gamification sono una serie di strategie/tecniche, per la maggior parte prese in prestito dal mondo dei videogiochi che servono a rendere migliore o alzare l’engagement di un prodotto o servizio. La gamification si può utilizzare praticamente ovunque, dai processi di apprendimento, alla realizzazione di app per aumentare l’engagement e la retention. Gli advergame, invece sono dei veri e propri strumenti per pubblicizzare l’azienda, l’idea è quella di raggiungere più persone possibili facendole divertire e in base alle meccaniche di gioco si possono targettizzare il pubblico di riferimento.Inoltre gli advergame sono particolarmente efficaci quando si vuole parlare alle generazione Z, la quale è è molto difficile da raggiungere attraverso gli strumenti classici.

Il vostro lavoro è articolato, e tocca anche comunicazione digitale, advertising, social responsability, brand awareness: come stanno insieme tutte queste cose?

È proprio questa la nostra peculiarità: fare stare insieme tutti questi pezzi. Il percorso formativo che abbiamo dovuto affrontare per arrivare dove siamo non è stato un percorso semplice. Il collante di tutto è la passione. Io e il mio socio, prima ancora di fondare Gladio Games, abbiamo realizzato il nostro primo videogioco nel 2014 mentre frequentavamo il corso di laurea in informatica. Lo scoglio più grande che abbiamo dovuto affrontare è quello di riuscire a creare videogiochi di successo con una qualità sopra la media, e unire questo prodotto con il mondo del marketing aziendale.Tutto questo non è facile perché viviamo in un mondo in continua evoluzione, evolvono le tecniche e la tecnologia per sviluppare videogiochi così come i social ed il marketing. Il nostro lavoro è rimanere sempre sul pezzo e sfornare un prodotto di successo dietro l’altro.

Vuoi dare un suggerimento ad altri startupper come te?

L’unica cosa che mi sento di poter dire è quella di seguire le proprie passioni, se l’idea è quella di aprire un’azienda per il solo ritorno economico, e per il “successo” allora non si andrà lontani. Io non cambierei per niente al mondo quello che faccio, lavorare 10 ore al giorno non mi pesa, ma solo e soltanto perché amo quello che faccio e la passione è il mio driver principale.

ApplaudArt, il social che connette professionisti, artigiani, artisti e commercianti con potenziali clienti [intervista a Marco Pulcinelli]

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Il 9 settembre 2020 ho intervistato per StartUp News Marco Pulcinelli, CEO & founder di ApplaudArt, piattaforma social che connette professionisti, artigiani, artisti e commercianti con potenziali clienti. Trovi l’intervista qui:

Che cos’è la Webvolution? Intervista a Fiorenzo Pilla

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Ho rivolto alcune domande a Fiorenzo Pilla, mio ex coautore di “Prontuario per genitori di nativi digitali ” e “Manuale per difendersi dalla post-verità“, e da poco nelle librerie con un altro testo dal titolo intrigante: Webvolution.

Fiorenzo, Che cosa si intende per Webvolution?

È la sintesi dei due profondi mutamenti che la rivoluzione digitale ha generato nella società contemporanea: un rivoluzione e un’evoluzione. La rivoluzione ha riguardato i concetti stessi di azione e relazione e questo appare evidente se li paragoniamo al modo in cui erano intesi nell’era pre-Internet.

Oggi la nostra vita quotidiana comprende, in moltissimi suoi aspetti, una connessione all’universo digitale e questa continua commissione e interazione ci permette di produrre costantemente nuove opportunità e scorgere nuovi orizzonti; sotto questo punto di vista possiamo dire di esserci evoluti sia come individui che come società nel suo complesso.

Rushkoff diceva: in futuro programmi o sarai programmato. Esagerava?

Quando Rushkoff ha proposto questa lettura dell’attività di programmazione, portava avanti una visione che, allora, non era  ancora definita e diffusa. Oggi, dopo un decennio, possiamo dire che anche qui, come in tante altre occasioni, Rushkoff ha mostrato lungimiranza. L’insegnamento e l’apprendimento di linguaggi e tecniche di programmazione come attività formativa finalizzata all’applicazione, anche in altri campi, delle logiche acquisite, è diffusa e comune, con risultati che in molti riconoscono come effettivi. Detto questo, il richiamo di Rushkoff può essere, a mio parere, letto anche nell’accezione “è necessario comprendere quali siano i meccanismi nascosti e condizionanti che ci mettono alla prova nella nostra vita digitale” e questo mi trova di certo d’accordo, ne è dimostrazione il fatto che Webvolution nasca proprio con lo scopo di far luce e diffondere la conoscenza su molti di questi aspetti per fungere da strumento utile ad accrescere la propria “consapevolezza digitale”.

Due chiacchiere sul dark Web

Nel testo parli anche di dark Web: spesso non è solo uno spauracchio? Quante persone riescono effettivamente a raggiungere meandri del Web pieni di droga e kalashnikov?

Davvero poche, direi! Scherzi a parte, spesso i mezzi di informazione, anche i più blasonati, presentato il Dark Web come un luogo oscuro e denso di pericoli, a volte persino confondendolo con il Deep Web, che è cosa diversa.

In realtà il Dark Web è un luogo virtuale che può essere considerato, sotto molti aspetti, un contesto utile e denso di risorse, alcune delle quali davvero preziose oltre che assolutamente legali e “innocue”.

L’idea che si possa accedere al Dark Web e, tramite una semplice ricerca, procurarsi droga o killer prezzolati è molto lontana dalla realtà. Anzi, quand’anche lo si esplorasse con finalità palesemente illegali, non sarebbe affatto semplice riuscire a ottenere ciò che si desidera.

Senza contare che numerose attività illegali possono essere portate avanti attraverso il Web in chiaro a cui, quotidianamente, tutti noi accediamo.

Insomma: il digitale è il problema, la soluzione o solo uno strumento e spesso mancano le basi per usarlo bene?

Il digitale, nella sua accezione più ampia, offre una gamma vastissima di opportunità e, al contempo, può generare danni incredibili. Ma la sua natura è neutra. Come giustamente dici, si tratta di uno strumento che può prestarsi ad azioni positive e vantaggiose o a pericolose distorsioni; tutto sta nell’attenzione, nella conoscenza e nelle intenzioni di chi lo usa.

Ecco perché comprendere quali siano le possibili conseguenze delle nostre azioni digitali diviene fondamentale, esattamente come accade nel mondo fisico. Un utilizzo degli strumenti digitali sano e privo, quanto più possibile, di rischi passa necessariamente dalla conoscenza di questo universo e dei suoi meccanismi. Solo in questo modo potremo diventare utenti consapevoli e, per molti versi, liberi.

 

 

La chat degli orrori: la mia intervista a Radio Capital del 18/7/20

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Sabato 18 luglio 2020 la DJ La Mario di Radio Capital mi ha intervistato sul tema della chat degli orrori, a partire da questa notizia:

“Le indagini sulla nuova chat degli orrori. Ragazzi eccitati dalla violenza. Siena, il capo della procura per i minori legge il fenomeno. E invita i genitori a vigilare sui cellulari”.

Puoi riascoltare l’intervista qui:

Qui puoi riascoltare le altre mie interviste a Radio Capital:

Scoprire le domande online: la mia intervista a Radio Capital del 11/7/20

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Sabato 11 luglio la DJ La Mario di Radio Capital mi ha intervistato sul tema delle domande online (abbiamo parlato anche dei tool Answer the public e Quora). Puoi riascoltare l’intervista qui

Qui puoi riascoltare le altre mie interviste a Radio Capital: https://www.gianluigibonanomi.com/radiocapital/