Web writing: conosci le 7 regole fondamentali di Michael Miller?

Se scrivi per il Web sai che, cambiando mezzo di comunicazione rispetto alla carta, devi rispettare regole e consuetudini diverse. Ci sono diversi manuali che svelano questi trucchi – forse ne hai già letto qualcuno – ma uno su tutti è davvero imprescindibile: “Scrivere per il Web. Diventare un Web copyrighter e catturare l’attenzione dei clienti” di Michael Miller, autore di oltre 100 libri.

Scrivere per il Web vuol dire tante cose: significa creare testi per siti Web, articoli online, blog, social media, email, pubblicità e comunicati stampa.

Le differenze tra scrittura online e offline

Nella prima parte del libro Miller spiega nel dettaglio quali sono le differenze tra scrittura online e offline: la lettura online è più lenta, dispersiva, scomoda, interattiva e i lettori – che in realtà non si considerano tali, bensì utenti o visitatori – cercano una gratificazione immediata ma soprattutto vogliono, così come vogliono i motori di ricerca, contenuti di qualità: esclusivi, utili e autorevoli.

Da questa premessa Miller cava delle regole. La prima, fuori da questa lista perché è un comandamento imprescindibile è la seguente: il vero focus è sul destinatario, mai su chi scrive.

Le regole fondamentali della scrittura online

Detto questo, ecco le sette regole fondamentali che si apprendono leggendo il manuale pubblicato in Italia da Hoepli.

  1. Scrivere semplice. Se è vero che la scrittura non è un fine ma un mezzo, deve venire incontro alle esigenze del pubblico, devi scrivere poco e con frasi brevi (massimo 12 parole), usa la forma attiva ed elimina le negazioni, usa parole corte e facili da comprendere. No al linguaggio settoriale, via le sigle incomprensibili (oppure spiegale la prima volta che le citi).
  2. Dividi il testo in paragrafi. Gli utenti non vogliono trovarsi di fronte a un muro di testo, per questo devi dividere il testo in paragrafi distinti, da quattro o cinque righe al massimo, con sottotitoli dedicati. Questo piace tanto anche a Google.
  3. Comunica i vantaggi, non le caratteristiche. Un bravo venditore di aspirapolveri porta a porta non ti parla del motore o degli accessori del prodotto, ma ti pulisce quel tappeto sporco da tempo. Al lettore non interessa altro che il suo tornaconto personale: risolvi un suo problema, ne sarà felice!
  4. Usa istruzioni passo a passo. Le persone amano imparare qualcosa, vuol dire che il pezzo che hanno letto è stato utile e possono mettere subito in pratica quello che hanno imparato.
  5. Usa gli elenchi. Gli elenchi mettono ordine in un argomento, danno “scientificità” a quel che scrivi e, soprattutto, sono facili da leggere.
  6. Usa lo schema della piramide rovesciata. Se è vero che i lettori online cercano una gratificazione immediata, dai nelle prime cinque righe tutto quello che cercano (conosci le 5W del giornalismo?), poi al limite approfondiranno nella parte restante del testo. Si parla di “above the fold”, come se stessimo parlando di un giornale: gli utenti odiano gli scroll.
  7. Usa un tono non troppo formale. La gran parte dei testi sul Web non sono la pagina “Chi siamo” dell’azienda, bensì articoli, blog, testi per i social e così via. Scrivi in prima persona, dai del tu al lettore. Usa un tono colloquiale, ma senza esagerare.

Queste sette regole (in realtà Miller non parla di sette regole, è una mia licenza da recensore creativo…), unite a un pizzico di storytelling, sono una bomba: prova e mandami un messaggio per raccontarmi com’è andata.

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I giustizieri della Rete

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Qualche anno fa rimasi impressionato dalla vicenda di Oscar Giannino. Alle elezioni politiche del 2013 il giornalista dandy (lo incontrai a un evento giornalistico e mi colpirono, per fortuna solo metaforicamente, delle scarpe con borchie) si presentò alla guida del movimento “Fare per fermare il declino”. A pochi giorni dal voto, però, il suo compagno di partito, l’economista Luigi Zingales, denunciò dei falsi nel suo curriculum. Tra gli studi di Giannino spiccava un master alla Booth University di Chicago, quella dove insegna Zingales. Ma il professore scoprì che alla Booth University Giannino non ha mai messo piede. Anzi, Oscar non era nemmeno laureato.

La carriera politica di Giannino finì lì. Iniziò, in compenso, una sorta di processo pubblico, i mass media si avventarono sul suo cadavere politico; ma è in Rete, sui social, che iniziò il massacro popolare. Riporto, per decenza, uno dei commenti simpatici:

Una vera gogna, come sempre più spesso accade online. Sono tantissimi i casi di persone messe in croce sul Web, senza alcun processo ma con conseguenze ben peggiori.

Recentemente mi sono imbattuto in un libro proprio su questo tema. Si tratta de “I giustizieri della Rete” di Jon Ronson. L’autore britannico, in un testo scritto molto bene e che consiglio, parla del lato oscuro di Twitter e Facebook; dalla quarta di copertina:

“Spesso [i social] alimentano i peggiori istinti moralizzatori delle persone, dando vita a una versione moderna e violentissima della gogna pubblica. Il bersaglio può essere chiunque, il perfetto sconosciuto come il personaggio famoso”.

Tra i casi citati c’è quello, notissimo, di Justine Sacco.


Per questo tweet di cattivo gusto (tradotto: “Sto andando in Africa, spero di non prendermi l’AIDS. Scherzavo: sono bianca!”) ha perso il lavoro. E la faccia.
La vicenda: nel dicembre 2013 Justine aveva preso un aereo per raggiungere Città del Capo, in Sudafrica, per visitare la sua famiglia. Prima di imbarcarsi aveva creato quel tweet. Nonostante i suoi pochi follower, il messaggio fu ritwittato (condiviso) da un giornalista e divenne virale, al suo arrivo in Sudafrica le crollò il mondo addosso. Come si legge su IlPost.it:

“Sacco fu presa in giro e insultata per giorni. A causa di quel tweet perse il suo lavoro da capo delle pubbliche relazioni della IAC, una grande società con sede a New York che possiede più di una trentina di società web molto conosciute tra cui Vimeo, Match.com, Daily Beast e Ask.com”.

La beffa: anche un professionista della comunicazione online è rimasta schiacciata dalla comunicazione online.

Il libro parla di tante storie del genere, tutte centrate su vergogna, reputazione e facile giustizialismo. Per esempio si racconta la storia di Jonah Lehrer, star della divulgazione scientifica che si è inventato, in un libro, una citazione di Bob Dylan; scherzetto che gli ha fatto saltare la carriera.

Tra gli altri c’è anche un predicatore finito in una lista di frequentatori di prostitute, ma anche il caso clamoroso di Max Mosley. Nel 2008 l’ex capo della Formula 1 venne coinvolto in un clamoroso scandalo sessuale scatenato dal quotidiano inglese News of the World. Il giornale pubblicò alcuni fotogrammi tratti da un video nel quale Mosley prendeva parte ad un’orgia di tipo sadomasochistico con alcune prostitute in uniformi naziste ed in divise che ricalcano quelle che indossavano gli internati nei lager. La notizia è che Mosley pare essere l’unico, tra i protagonisti del libro, ad aver superato la gogna mediatica online in modo (quasi) indolore.

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Internet delle Cose: 10 esempi incredibili (ma veri)

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Grazie all’“Internet delle cose”, forno e frigo potranno comunicare tra loro. Per sparlare della lavatrice.

Chiamata IoT, Internet of Things, Internet delle Cose o come ti pare, la notizia è che tu, essere umano connesso alla Rete, sarai in minoranza. La gran parte degli oggetti che ci circonda, o che ci stanno addosso, saranno collegati a Internet e tra loro. D’accordo, un vecchio white paper di Cisco aveva toppato: diceva che 50 miliardi di oggetti più o meno intelligenti sarebbero stati connessi già dal 2015. Eppure il trend è chiaro, e lo racconta benissimo un bel libro che ho letto di recente: “Come usare al meglio l’Internet della Cose” (Tecniche Nuove), scritto da Martina Casani – esperta di marketing B2B, cloud, sharing economy e ovviamente IoT – e Marcello Majonchi – esperto IoT di Microsoft.
Il libro è ben scritto, approfondito ma soprattutto riporta un sacco di esempi interessanti. Ne ho scelti 10, per dimostrare che, numeri a parte, l’IoT è già una realtà consolidata.

1. La coda delle mucche è IoT

Moocall è un gadget irlandese che avvisa gli allevatori quando le mucche iniziano il travaglio. Si aggancia alla coda della mucca.

2. La macchina del caffè connessa

Grazie alla piattaforma Plat.One di Abo.Data e alla Cloud Azure di Microsoft si è sviluppata una soluzione che permette di monitorare le macchine del caffè a uso professionale con una serie di vantaggi sotto il profilo della qualità, della manutenzione predittiva e dell’accesso a nuove informazioni di marketing. A questo proposito, è possibile monitorare, a livello mondiale e in tempo reale, il consumo di determinati prodotti in determinate aree geografiche o in determinati orari.

3. Il copri-materasso intelligente

Prodotto di una start-up italiana, Eight è il coprimaterasso “intelligente” che analizza i dati del nostro sonno (temperatura, frequenza respiratoria, battito cardiaco…) e ci rimanda via app i consigli su come dormire meglio.

4. La valigia connessa

Bluesmart è la prima valigia intelligente del mondo: si pesa da sola, conosce la propria posizione, ricarica smartphone e tablet e si sblocca con un’app.

5. Il caschetto che previene gli incidenti sul lavoro

Nel settore ingegneristico, l’azienda O’Rourke ha adottato caschetti intelligenti che controllano la temperatora e la frequenza cardiaca dei portatori così come la temperatura e esterna e l’umidità.

6. Il sofà intelligente

Lift-Bit è un sistema di arredo modulare e riconfigurabile con il movimento delle mani e via app. Sfrutta Internet delle cose per consentire agli sgabelli esagonali imbottiti, che si alzano e si abbassano a comando digitale, di assumere varie forme. Lift-Bit può avere la funzione di poltrona, sedia, divano, chaise longue o letto.

7. Il lampione smart

La startup rumena Flashnet ha sviluppato un sistema che permette di gestire in modo più efficiente l’illuminazione pubblica. Attraverso un modulo connesso a una rete wireless e montato su un lampione, per esempio, il sistema permette di accendere e spegnere la luce o regolarne l’intensità da remoto. Il dispositivo può anche memorizzare una pianificazione automatizzata per l’illuminazione, in modo che non ci siano malfunzionamenti se si interrompe il collegamento wireless.

8. Giacche da sci interattive

Sui capi DKB vi è un sensore che garantisce l’autenticità e dà ai consumatori, tramite app, anche le istruzioni per l’uso e la manutenzione. Tutto questo consente anche di aprire un canale di comunicazione e marketing diretto.

9. Smart wine

Wenda è un dispositivo elettronico che può essere inserito sia sul collo della bottiglia di vino per un monitoraggio uno-a-uno, che posizionato all’interno del pallet, così da controllare una spedizione intera. Ma soprattutto il dispositivo comunica le caratteristiche del vino.

10. Maiali col tag

L’Azienda Agricola Ca’ Lumaco è specializzata nell’allevamento dei suini che vivono allo stato brado, nel bosco, in uno spazio di circa 18 ettari, cibandosi di ghiande e castagne e altri prodotti provenienti da agricolture biologiche. La soluzione tecnologica adottata consente di tracciare i suini all’interno dell’azienda grazie a un tag RFID auricolare, dove è memorizzato un codice che identifica univocamente l’animale. Dall’altro, grazie a un sistema di videocamere installate in sala parto, il sistema si integra a un sistema di videosorveglianza che consente un controllo da remoto dei capi nei vari box. Su un display sinottico l’operatore può verificare in tempo reale la situazione dei capi nel macello, le presenze in sala parto e le altre immagini provenienti dalle videocamere, con un notevole risparmio di tempo e un significativo aumento dell’efficienza generale.

Nel libro di Casani e Majonchi, M&Ms, trovi moltissimi altri esempi, insieme ad analisi, studi, scenario attuale e future o ogni altra implicazione dell’IoT. Puoi acquistare il libro su Amazon:

Personal finance: quello che nessuno ci insegna

Ho iniziato a leggere quasi per caso il libro di Kyosaki “Padre ricco, padre povero”: forse qualcuno l’aveva consigliato online e, per me, dal consiglio convincente al carrello di Amazon il passo è breve (sono una vittima del Neuro Web Marketing, ma almeno ne sono consapevole). Sfoglio le prime pagine del testo e trovo questa frase:

“La casa è un bene passivo e se è la casa il tuo più grande investimento, sei nei guai”

Che colpo! Ma come? Un investimento così importante, costato così tanti sacrifici, viene considerato un problema? Leggo con sempre maggior avidità il libro, che tra l’altro è scritto molto bene. Non si tratta di un manuale o saggio tradizionale, ma della storia dello “svezzamento finanziario” di un ragazzino delle Hawaii. Da una parte ha un padre naturale che, pur ricoprendo un buon ruolo nel mondo accademico e prendendo un buono stipendio, non ha mai un soldo e non risparmia nulla. Dall’altra parte c’è il padre di un suo amico, un imprenditore che gli insegna alcuni concetti elementari di finanza personale. Concetti che – incredibile a dirsi – nessuno insegna. Nessuno me li ha mai insegnati, dannazione!

Volete degli esempi? Beh, dice Kiyosaki, tutti siamo protagonisti della corsa del topo; io preferisco la metafora del criceto nella ruota: studiamo per il posto fisso, lavoriamo per avere uno stipendio sempre più alto e, a ogni aumento, ci sommergiamo di nuove spese. Continuiamo ad accumulare passività: come il mutuo, le rate della macchina e del divano, gli abbonamenti a questo e quello. Mentre dovremmo pensare, il prima possibile, a puntare (anche) sulle attività, per avere delle rendite: per esempio investimenti immobiliari, titoli, fondi, royalties e così via (tutto quello che non richiede un intervento diretto, un lavoro).

Sono due prospettive completamente diverse. Scrive l’autore: “Da ragazzino il mio padre istruito mi esortava a trovare un lavoro sicuro. Il mio papà ricco invece mi spronava a trattare e comprare nell’ambito e nei settori che più amavo”. Non tutti sono speculatori o sufficientemente audaci da buttarsi in investimenti di rischio; è anche vero che il libro non invita necessariamente a diventare spietati immobiliaristi. Una cosa è certa: avere coscienza di come vanno le cose – avere una cultura finanziaria – dovrebbe essere un obbligo per tutti. È per questo che, per la prima volta su questo sito, recensisco – e suggerisco caldamente – la lettura di un libro che con l’hi-tech non c’entra nulla… [fino a un certo punto, pensandoci bene: sapete che esistono app di personal finance che permettono di risparmiare e investire con un tap da smartphone?]

 

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Appunti da un’intervista a Jacques Séguéla

All’università feci un esame di scienza della politica (per alcuni un ossimoro…), dove scoprii l’acqua calda: i politici vedono gli elettori come clienti, il prodotto che vendono dovrebbe essere il loro programma ma in realtà vendono sé stessi, l’elettorato è un insieme di numeri distribuiti su una curva gaussiana e così via.
Tutte queste cose le ho ritrovate nel libro “Presidente da vendere”: si tratta di un’intervista di Domenico Pasquariello a Jacques Séguéla, vera e propria leggenda della comunicazione politica: basti pensare che, come ampiamente testimoniato nel testo, su venti campagne presidenziali ne ha vinte 19.

Da buon pubblicitario, quando Séguéla parla, spara claim. Ho deciso di appuntare tutte le chicche trovate nel testo e le ripropongo, in rigoroso ordine sparso, qui di seguito.

L’uomo politico è una marca.

Non esistono buone interviste, solo buoni intervistatori.

Il denaro non ha idee. Ma solo le idee producono denaro.

Il XIX è stato il secolo dei mercanti. Il XX di industriali e banchieri. Questo è per creativi e visionari, e si parla di “Rivoluzione infostriale”.

Il consumo è un sistema di vasi comunicanti. Una delle branche è il desiderio, l’altra la fiducia.

La coscienza politica è la prima coscienza dell’uomo.

Elezione è seduzione.

Nessuno vince un’elezione. È l’avversario che la perde.

Giornalista una volta, giornalista per sempre.

La vita è un percorso predeterminato, che si decide tra infanzia e adolescenza.

Esiste un punto mediano di comunicazione: al di là degli intellettualismi, tutti hanno le stesse reazioni di fronte alla vita e alla morte.

L’istinto è animale, l’intuito è umano.

Bisogna pensare per immagini, non più parole. Le parole devono essere al servizio dell’immagine.

Occorre liberare il consumatore dal senso di colpa: la pubblicità ha trasformato l’atto di acquisto in atto culturale.

La moda diventa propria moda a seconda delle marche che uno sceglie. La combinazione dei marchi acquistati è personale ed esprime la propria creatività.

Che cosa differenzia un oggetto da un uomo? La parola

La comunicazione è ormai indissociabile dall’esercizio del potere.

“Calunniate, calunniate, qualcosa resterà” (cit. Francis Bacon)

 La società della comunicazione è diventata la società di conversazione. Non si parla più di società di massa ma di persone. Quindi la comunicazione diventa personale. Ogni cittadino è un medium: basta dargliene i mezzi.

“Prossimità” è la nuova parola d’ordine.

Il terzo millennio sarà femminile. Uomo dà morte, guerra. Donna dà la vita, parto.

Ogni atto di consumo è sessuale. Vi è il piacere nell’acquisto. Senso di potere e soddisfazione. La stessa cosa vale per il voto.

La debolezza della sinistra, prima di essere degli uomini e delle idee, è la debolezza della comunicazione.

La vecchiaia è il culto dell’egoismo.

Postpubblicità: Nike rinuncia allo slogan Just do it e lascia solo il simbolo.

Non più martellamento con uno slogan, ma vibrazione. Energia di auto-trasmissione (passaparola).

L’Idea lascia alla storia lo scettro della persuasione: ora vale solo lo Storytelling.

Ma ogni internauta può deformare il messaggio, perché è di fatto comproprietario del messaggio. Ognuno da destinatario diventa emittente.

La comunicazione è sorprendere. Chiedo a un banchiere che cos’è la neve quando si scioglie? Lui risponde: diventa acqua. Per me la neve che si scoglie diventa primavera.

La buona pubblicità è quella che tocca la pancia, non la testa.

Nell’era dell’immagine non avere il look del proprio elettorato è una tara insormontabile.

Solo la sostanza conta, ma è la forma quello che passa.

Il Titanic l’hanno costruito dei professionisti, l’arca di Noè dei dilettanti.

Ogni elezione è una drammatizzazione.

Si vota per il futuro, non per il passato. Nell’urna non esiste gratitudine. Per questo il cambiamento è l’arma fatale di ogni lotta politica.

Il voto è sociologico, non politico. Si sceglie col cuore e non con la ragione.

Sono sempre gli indecisi a decidere un’elezione.

Si vota per lo straordinario, non per l’ordinario. Una campagna è uno spettacolo.

Si vota per un vincitore, non per un perdente.

Non bisogna essere il candidato che si vede di più. Ma quello che si vede meglio.

Si vota per un valore. Non per un’immagine.

 

 

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“Programma o sarai programmato” di Douglas Rushkoff

Premetto che ho un debole per Douglas Rushkoff. Se non altro perché sono anni che, parlando di social network e profilazione degli utenti, cito la sua celebre frase:

“Se su Internet qualcosa è gratis, il prodotto sei tu”.

Frase che, tra l’altro, ha ispirato il titolo di una puntata notevole di Report che potete vedere qui. Tra parentesi, di Rushkoff, avevo già segnalato il suo “Presente continuo”.

Stavolta parlo di un interessante libro un po’ datato, del 2010: “Programma o sarai programmato” (Postmedia). Si tratta di un testo molto interessante, comunque attuale, che parte da questo presupposto: è vero che computer e reti informatiche consentono a tutti di scrivere e pubblicare, ma la competenza alla base dell’era informatica riguarda in realtà la programmazione, attività di cui quasi nessuno di noi è a conoscenza. Usiamo i mezzi programmati da qualcun altro. Solo un élite è in grado di trarre vantaggio da quanto promette il nuovo mezzo.

Fatta questa premessa, il libro si presenta come un manualetto, l’insieme di “dieci istruzioni per sopravvivere all’era digitale”, come recita il sottotitolo. Eccole, queste dieci istruzioni, che ritengo molto utili pur essendo io un tecno-entusiasta, non certo un apocalittico (il rischio è che scettici e luddisti prendano questi spunti come la prova che la tecnologia ci sta solo deumanizzando e uccidendo: tesi che trovo in gran parte priva di fondamento).

  1. Evitiamo di essere sempre online. Le tecnologie digitali sono intrinsecamente opposte allo scorrere del tempo e tese verso modalità asincrone di comunicazione. I computer si basano su istruzioni, non sul tempo. Eppure ora siamo tutti always-on, sempre connessi, e pure multitasking col risultato che, invece di diventare autonomi e consapevoli, siamo esausti se non esauriti. Non a caso si comincia a parlare di “digital detox”, aggiungo io.
  2. Vivere lo spazio. Le reti digitali sono tecnologie decentrate, che penalizzano le relazioni con chi o cosa ci sta davanti. Spesso finiamo per perdere il senso del luogo e il vantaggio di giocare in casa. Si parla quindi di incontri di persona, ma non solo: per esempio di acquisti da produttori locali.
  3. Si può sempre scegliere di non scegliere. Che cosa vuol dire? Il digitale obbliga sempre a fare scelte di tipo binario, perché questi sono i limiti di uno strumento che si basa sui bit, sugli zero e sugli uno. Il mondo è un po’ più complesso di così, fatto di miliardi di sfumature: allora possiamo rifiutare le classificazioni o scegliere qualcosa che non è nel menù, se possibile.
  4. Non abbiamo mai pienamente ragione. Gli strumenti digitali semplificano eccessivamente le questioni più delicate. I nuovi media tendono a polarizzarci in campi opposti, riducendo la complessità. Mai confondere modelli digitali e realtà quotidiana.
  5. La scalabilità: un’unica misura non va bene per tutti. Su Internet tutto è scalabile: per esempio le attività imprenditoriali, se vogliono sopravvivere, devono ingrandirsi e salire a un livello di astrazione al di sopra degli altri. Online non si può più rimanere a livello del “negozietto sotto casa”. Non è detto che questo vada bene per tutti.
  6. L’identità: rimani te stesso. Relazionarsi con gli altri in maniera anonima, come spesso avviene in Rete, ci porta a perdere le ripercussioni umane di quanto diciamo e facciamo online. Senza anonimato, rimaniamo presenti e responsabili, viviamo meglio la nostra umanità anche nell’universo digitale.
  7. Il sociale: non svendere gli amici. I media digitali, nonostante molte tendenza disumanizzanti, sono caratterizzati da forti spinte sociali. A prosperare sono sempre strumenti che contribuiscono a creare legami tra le persone, anche se non erano stati inventati con quello scopo (anche la stessa rete Internet ne è un esempio). Vedi, in particolar modo, i social network.
  8. I fatti: dire la verità. L’unica opzione disponibile per chi usa gli spazi virtuali è dire la verità perché, a detta di Rushkoff, prima o poi le bufale vengono scoperte online. Tesi controversa, visti i tempi che corrono e la cosiddetta post-verità.
  9. Condividere senza rubare. Le reti sono state create per condividere risorse informatiche: ecco perché due delle caratteristiche fondamentali della tecnologia sono l’apertura e la condivisione (imparando la differenza tra condividere e rubare in un’economia del dono).
  10. L’obiettivo finale: programmare o essere programmati. Se non impariamo a programmare, rischiamo di essere programmati da qualcun altro. Basta anche solo capire che esistono codici nascosti tra le interfacce di siti e programmi. In caso contrario resteremo alla mercé dei programmatori o della tecnologia in quanto tale.

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Riepilogo di LinkedIn: partire dai perché (e dal cerchio magico di Sinek)

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Nei corsi per cercare lavoro online applico alcuni principi base del marketing e del digital marketing: del resto ognuno di noi deve trovare un posizionamento e proporsi sul mercato. Dopo aver spiegato come usare gli insegnamenti di Carnegie quando si scrive una lettera o mail di presentazione e quelli di Maxwell Sackheim per vendere sé stessi, passiamo a come ci si presenta. Per esempio scrivendo il riepilogo del proprio profilo LinkedIn, solitamente tasto dolente di chi deve sistemare il profilo.

Secondo Simon Sinek, autore del libro “Partire dal perché”, i grandi leader e le grandi aziende non impostano la loro comunicazione su che cosa fanno o come lo fanno. Partono dal perché. L’esempio tipico è quello di Apple (ma potrei citare anche Harley-Davidson): l’azienda di Cupertino lancia messaggi che partono dal perché, da uno scopo, da una causa o da un ideale che non ha nulla a che fare con quello che Apple fa. Quello che fa non è più la ragione d’acquisto, viene piuttosto utilizzato come prova tangibile di dedizione a una causa. In parole povere: Apple non è vista come un’azienda che fa computer, quindi se produce un lettore MP3, un aggeggio da attaccare alla TV o un orologio, poco cambia. Se invece Dell, azienda di computer, produce un lettore MP3, il prodotto è un flop. Partire dal perché e non dal cosa, tra l’altro, permette di non finire nel pantano delle commodity o a scannarsi sul prezzo.

Sinek parla di cerchio magico, con al centro il perché e, più esterni, come e cosa: ricalca la sezione del cervello umano, dove al centro c’è il sistema limbico e solo alla periferia c’è la neocorteccia, responsabile del pensiero razionale e analitico del linguaggio. Tradotto: la comunicazione deve essere di tipo emotivo, non razionale.

Che cosa c’entra tutto questo con il Riepilogo di LinkedIn, quei 2.000 caratteri che stanno prima delle posizioni lavorative? Se dico che cosa faccio o ho fatto in passato, sto solo elencando una serie di esperienze e skill. Se invece dico perché ho deciso di intraprendere quella carriera, perché mi alzo tutte le mattine (la risposta non è “guadagnare”: quello è un risultato), la comunicazione diventa molto più efficace. Del resto Herb Kelleher (fondatore di Southwest Airlines) disse:

“Non si assume qualcuno per le sue competenze, lo si assume per le sue attitudini. Le competenze si possono sempre insegnare”.

Sinek, per spiegare in modo semplice il concetto, racconta la storia di due scalpellini. Chiedete al primo: “Ti piace il tuo lavoro?”. Lui risponde:

“Non mi ricordo neanche più da quanto tempo sto costruendo questo muro. Il lavoro è monotono. Lavoro tutto il giorno sotto un sole cocente. Le pietre sono pesanti e sollevarle ogni giorno può essere massacrante. Non so nemmeno se vivrò fino a vedere questo progetto completato. Ma è un lavoro. Mi permette di campare”.

Poi invece fate la stessa domanda a un secondo scalpellino, e questo risponde:

“Amo il mio lavoro. Sto costruendo una cattedrale. Certo, non mi ricordo neanche più da quanto tempo sto costruendo questo muro e a volte il lavoro è monotono. Lavoro tutto il giorno sotto un sole cocente. Le pietre sono pesanti e sollevarle ogni giorno può essere massacrante. Non so nemmeno se vivrò fino a vedere questo progetto completato. Ma sto costruendo una cattedrale”.

I due fanno lo stesso lavoro. Ma uno dei due ha uno scopo. Ha un perché.

Sulla scia di queste considerazioni ho riscritto il mio Riepilogo di LinkedIn. Prima parlavo di quello che facevo, con particolare enfasi sui social media, sui blog, sugli eBook. A pensarci bene tutti strumenti che non si usavano in passato e potrebbero non esserci in futuro. Ora invece il mio Riepilogo suona così:

“Ho da sempre una smodata passione per comunicazione e cultura digitali. Cerco di portare l’entusiasmo per la tecnologia in tutto quello che faccio: creo contenuti (il mio vero “core business”) per siti, blog, libri ed eBook, social media, corsi per professionisti e lavoratori, convegni, strategie di content marketing o consulenze aziendali. Queste passioni mi hanno travolto quando ancora ero uno sbarbato (da allora però ho sempre portato la barba). A 16 anni ho iniziato…”

Se fatichi a trovare il tuo perché, prova a usare il metodo dei cinque perché di Sakichi Toyoda.
Se invece cerchi una mano per sistemare il tuo profilo LinkedIn (o il Riepilogo), scrivimi!

Personal branding: i 5 principi di Maxwell Sackheim per vendere sé stessi

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Da qualche anno, grazie all’esplosione del Web 2.0, si parla di personal branding o self branding. Eppure il concetto di “fare pubblicità a sé stessi” è ormai consolidato da alcuni decenni! Prova ne sia il libretto “Come fare pubblicità a sé stessi”, appunto, di Maxwell Sackheim, datato addirittura 1978.

Sackheim, guru americano della pubblicità, ha espresso in questo piccolo volume (91 pagine, edito da Lupetti) cinque principi cardine del vendere sé stessi (detto così sembra che siamo tutti delle escort, ma rende l’idea). Eccoli:

1) Conoscere la propria “merce”. Dobbiamo analizzarci come se fossimo un prodotto per conoscere punti di forza e di debolezza, come in un’ideale SWOT. Quando tengo i corsi per cercare lavoro online spesso chiedo ai corsisti: “Che cosa hai fatto nella tua vita?” e “Cosa vorresti fare?”; la risposta è spesso un laconico “Un po’ tutto” se non un terrificante “non saprei”. Sackheim dice anche un’altra cosa sacrosanta: bisogna piacersi, altrimenti come possiamo venderci? Tutto parte dall’autostima: per questo, a volte, ad alcune persone che cercano lavoro consiglio di fare sport.

2) Attirare positivamente l’attenzione. Il ragionamento più convincente del mondo non può nulla se non trova nessuno ad ascoltarlo. Sackheim parla di vestiti, modo di parlare; qui bisogna raddrizzare il tiro, entrare nell’era del Web: quindi io ci metterei l’uso strategico del personal blogging e dei social media.

3) Mantenere vivo l’interesse. Solo con argomenti interessanti potremmo tener viva l’attenzione del possibile “compratore”. Direi qui che possiamo benissimo parlare di storytelling. Se, come dice Christopher Vogler, tutte le storie del mondo sono una storia sola – quella del viaggio dell’eroe – perché non possiamo usare questo principio per elevarci a eroi della nostra storia? Per esempio, come tutti gli eroi, abbiamo anche affrontato – e superato! – momenti di difficoltà: perché tacere del fallimento dell’azienda e del periodo di disoccupazione, se raccontato bene?

4) Bisogna saper essere convincenti. Chi ascolta deve crede a ciò che diciamo. Non basta quindi dire tante cose, bisogna anche essere autorevoli. Per questo, aggiungo io, occorre studiare, studiare, studiare per diventare autorevoli nel proprio settore. Solo dopo aver letto, bisogna anche scrivere (un libro o un eBook? Perché no: in Italia nessuno legge ma tutti voglio scrivere, forse perché è appunto uno dei pochi modi per dimostrarsi autorevoli).

5) Call to action. In verità Sackheim parla di “indurre all’azione”, ma io l’ho tradotto in linguaggio Web. Tutta l’opera di comunicazione e pubblicità non serve a nulla se il destinatario non compie un’azione. Così come tutto il traffico che possiamo generare su un sito Web, magari portandoci gente dai social, non serve a nulla se poi le persone non comprano dall’e-commerce, non si iscrivono a una newsletter, non lasciano i propri dati per essere contattati. Allo stesso modo tutto quello che facciamo deve “creare un’atmosfera propizia per indurre all’azione, ossia per raggiungere un accordo”, dice Sackheim.

Se facciamo tutte queste cose, conclude l’autore, saremo in quel 15% di persone che spicca dalla massa perché non fa parte né del 70% che appartiene alla media generale o, peggio, a quell’altro 15% sotto la media.

Riassumo tutto in questo video:

Se vuoi contattarmi per un corso, personale o aziendale, sul personal branding, compila questo modulo online.

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Sexting: che cos’è e come prevenirlo

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Il tema “nativi digitali e tecnologia” mi è molto caro, per lavoro e in quanto genitore (seppure le mie bimbe siano piccole). Anche se, apro e chiudo parentesi, sulla questione “nativi digitali”, sulle competenze dei ragazzi che non sanno nemmeno cosa sia una mail, ci sarebbe da discutere. Ragazzi, preadolescenti e adolescenti, vivono lo smartphone come una protesi, e i problemi sono all’ordine del giorno. Anche se spesso mi chiamano nelle scuole per “alfabetizzare” e prevenire, a volte invece la frittata è già stata fatta. Episodi di sexting, adescamento, cyberbullismo, dipendenza da pornografia online si stanno diffondendo anche nelle secondarie di primo grado: le medie, per intenderci. Sì, a undici anni hanno tutti lo smartphone e sì, a quell’età sono tutti su (almeno) un social o usano un sistema di messaggistica (per me WhatsApp è un social). Anche se, a dirla tutta, non potrebbero usare quegli strumenti: quanti di voi sapevano che l’età minima per l’uso dei social è 13 anni ma di WhatsApp 16?

Fatta questa lunga introduzione, vengo al punto: era tempo che cercavo il libro “definitivo” sul tema “educazione sessuale nell’era di Internet”. Finalmente l’ho trovato, e lo consiglio davvero, di cuore, a tutti: si chiama “Tutto troppo presto” (De Agostini) ed è stato scritto da Alberto Pellai, terapeuta dell’età evolutiva (suggerisco anche di seguire il suo blog www.tuttotroppopresto.it). È un libro molto interessante, chiarissimo, pieno di casi di studio; si trovano persino delle tracce di conversazioni da fare con i propri figli sul tema, magari dopo aver visto uno dei film o dei video suggeriti alla fine di ogni capitolo. Un testo anche molto pratico, quindi.

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I temi trattati sono diversi e tutti caldissimi. Ma quello che più mi interessa in questa sede è il sexting. Di che cosa parliamo, che cos’è il sexting? La definizione è grosso modo questa: nata dalla crasi delle parole inglesi sex e texting, la parola indica “l’atto di condividere messaggi, foto o video a contenuto social più o meno esplicito, prodotti attraverso cellulare, computer, tablet, palmari e scambiati via chat, social network e programmi di messaggistica istantanea”. Di solito il meccanismo è questo: lui e lei si mettono insieme. A tredici/quattordici anni sembrano vivere la storia della vita, che dura… un mese. Lui chiede a lei delle foto osé. Lei decide di mandarle perché si fida e perché, in alcuni casi (come fa notare Pellai), si tratta di un surrogato del sesso, a volta una palestra per misurarsi con l’immagine del proprio corpo sessuato. Lei lascia lui, e lui si vendica inviando le immagini ad amici, alla classe (se i video sono a sfondo sessuale, si parla di “revenge porn”). Oppure lui condivide le immagini con gli amici per vantarsi. A lei crolla il mondo, con conseguenza psicologiche e sociali devastanti; in alcuni casi si è arrivati al tentativo di suicidio.

Detto cos’è il sexting, come prevenirlo? La ricetta di Pellai è sempre la stessa per tutti questi fenomeni: bisogna parlare con i ragazzi. Nel caso specifico bisogna fargli capire che il sexting è un autogol (l’immagine che lascia lo smartphone è persa, non se ne avrà mai più il controllo), rovinerà la reputazione anche per il futuro e, cosa che sottovalutano tutti i ragazzi, può avere conseguenze penali. Proprio così: possedere immagini a sfondo sessuale di minorenni può esporre al rischio di un procedimento penale, secondo la legge contro gli abusi sui minori e la pedopornografia. Se le immagini vengono distribuire all’insaputa del soggetto ritratto o ripreso, il reato si aggrava: non si parla più solo di detenzione, ma anche di distribuzione.

Insomma, Pellai suggerisce di parlare apertamente con i ragazzi di sexting, del perché i giovani lo fanno: anche solo attirare l’attenzione, mettersi in mostra, manifestare interesse per – o fiducia in – qualcuno. Ma soprattutto occorre spiegare bene come comportarsi se ci si trova in una situazione del genere: occorre sempre confessarlo a un adulto, genitore o insegnate, qualcuno di cui ci si fidi.

Prima ho accennato al fatto che Pellai suggerisce di vedere con i ragazzi dei film o video, e di parlarne con loro. In merito al sexting indica questo filmato, Exposed, distribuito gratuitamente su YouTube (in inglese ma con i sottotitoli in italiano):

Questo articolo è stato di ispirazione per una puntata del mio podcast “Genitorialità e tecnologia”, che puoi ascoltare direttamente qui:
Ascolta “1×03 Sexting: 10 cose che devi sapere” su Spreaker.

Se vuoi organizzare un corso sui pericoli della Rete nella tua scuola, associazione, Comune o biblioteca, scrivimi:

Bambini e tecnologia: non proibire, ma condividere

Grazie a ClasseWeb, la mia società di formazione che si occupa prevalentemente dei temi della genitorialità in relazione alla tecnologia, mi capita spesso di andare a parlare nelle scuole, di tenere workshop per genitori e figli. E spesso i papà e le mamme mi chiedono se esiste un buon libro che parli di bambini e tecnologia. Eccolo: si chiama “I nuovi bambini” (è del 2014), l’autore è Paolo Ferri (autore della prefazione del nostro “Navigazione familiare”).

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Paolo Ferri, docente di tecnologie didattiche e teoria e tecnica dei nuovi media presso la Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università degli Studi Milano Bicocca, ha scritto un testo su “come educare i figli all’uso della tecnologia, senza diffidenze e paure”, come recita il sottotitolo del testo edito da Bur. Proprio perché è un docente e tratta questi temi per lavoro, Ferri ha un approccio scientifico, né da apocalittico (come diversi genitori che incontro) né da integrato, o meglio tecno-entusiasta (come spesso sono io). Però è anche un papà, e racconta la sua esperienza diretta di padre di un nativo digitale, di un membro della cosiddetta “generazione app”.

Il libro, di circa 200 pagine, spiega innanzitutto come bambini e ragazzi usino un approccio alla tecnologia completamente diverso da quello di noi “immigranti digitali”, “esseri gutemberghiani”: quello per “prove ed errori” (learning by doing, si dice); non usano manuali, usano la tecnologia e basta. Anche da molto piccoli: sempre più spesso hanno in mano gli smartphone a sette, otto anni. I genitori che sono spaventati dai nativi digitali hanno la tentazione di proibire la tecnologia: sarebbe un grave errore, sostiene Ferri. Occorre invece un approccio diverso: bisogna affiancare i ragazzi mentre usano smartphone e tablet, stabilire delle regole, creare un clima di fiducia. Certo, occorre proteggerli, anche grazie alla tecnologia: vedi i sistemi di parental control. Ma in ogni caso, come scrive l’autore in uno degli utili suggerimenti che si trovano alla fine dei capitoli, “Cercate di far diventare parte del lessico familiare anche la porzione online della vita dei vostri figli e valutare insieme a loro l’estetica, la giocabilità, il contenuto e le caratteristiche, per esempio, dei videogiochi”. Ma anche dei social network, sempre più diffusi anche prima del limite consentito di 13 anni.

 

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