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Che cos’è la dieta mediale? L’intervista a Marco Gui

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La quindicesima puntata del podcast “Genitorialità e tecnologia” è dedicata all’intervista con il professor Marco Gui (nella foto sopra), ricercatore presso il Dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale dell’Università Bicocca. Ho intervistato Marco perché si occupa di sociologia dei media ed è un grande esperto di uso consapevole della tecnologia in famiglia. Tra l’altro è l’autore di uno dei libri più interessanti che ho letto sul tema: “A dieta di media. Comunicazione e qualità della vita”.

Il problema

Come si evince dall’intervista, breve (una decina di minuti in tutto) ma intensa, il tema del libro è la sovrabbondanza comunicativa permanente. In particolare Gui sostiene che l’obesità e la sovrabbondanza comunicativa colpiscano le fasce con meno risorse socio-culturali, quindi toccano chi ha meno strumenti per difendersi. Data l’analogia tra cibo e tecnologia, si parla quindi di dieta mediale.

Nel corso della puntata Gui ha precisato che le vere dipendenze (IAD, Smartphone addiction e dipendenza dai videogiochi) sono rare, ma sempre più spesso si verifica un sovra-consumo, un uso disfunzionale della Rete, che si associa a diversi problemi: di tipo relazionale, di rendimento nello studio o sul lavoro, di qualità del sonno o della capacità di godersi in modo rilassante momenti di svago.

I rimedi

Quali i rimedi? Gui suggerisce, soprattutto ai genitori, di avere un strategia nell’uso dei media, in modo da usare consapevolmente tutti gli schermi che ci circondano ma soprattutto per essere un esempio per i ragazzi. Prima di tutto occorre analizzare l’uso che si fa della tecnologia. Per questo possono essere utili strumenti come RescueTime.

L’intervista

Per ascoltare la puntata del podcast fai clic su Play qui:

Ascolta “#15 A dieta di media in famiglia: l’intervista a Marco Gui” su Spreaker.

Per contattare Marco puoi visitare la sua pagina sul sito dell’Università Bicocca, scrivergli a marco.gui@unimib.it oppure visitare il sito del suo progetto sul benessere digitale.

Se vuoi invece riascoltare tutte le puntate del podcast “Genitorialità e tecnologia”, fai clic qui:

Selfie e identità: 4 cose che i genitori devono sapere

Questo articolo è stato pubblicato su Mamamò, a questo indirizzo.

In un recente articolo sul perché i ragazzi amano tanto i social, in cui sottolineavo il fatto che partecipare, confrontarsi con gli altri online e ricevere dei feedback positivi sia un loro bisogno, parlavo anche di selfie, come strumento per definire la propria identità e accrescere l’autostima. L’occasione per approfondire questo tema viene dalla lettura del libro Selfie. Narcisismo e identità di Giuseppe Riva.

Il libro di Riva, breve ma intenso, dà molti spunti. Ecco le quattro cose che un genitore deve sapere sui selfie.

Selfie: iniziamo dal nome

Selfie è il diminutivo di self-portrait, autoritratto, autoscatto tipicamente fatto con uno smartphone o una Webcam e condiviso sui social. Pare che il termine si sia diffuso a inizio secolo, come hashtag, sulla piattaforma di condivisione di foto Flickr. L’esplosione si è avuta nel 2010 quando si diffusero i primi smartphone con fotocamera anteriore. Fino a diventare, nel 2013, la parola dell’anno dell’Oxford Dictionary. C’è anche una pagina dedicata sul sito dell’Accademia della Crusca, dove  si scopre che ormai è ufficiale l’uso al maschile e che esistono anche delle varianti: Delphie è il selfie mentre si guida, Welfie in palestra, Belfie del “lato b”.

La storia del termine o della tecnologia contano poco. Quello che conta è la data, 3 marzo 2014: durante la notte degli Oscar Ellen Degeneres scatta il selfie più condiviso della storia. Nello scatto si vedono diverse star come Meryl Streep, Jared Leto, Julia Roberts, Brad Pitt, Angelina Jolie, Kevin Spacey e altri. Era una trovata pubblicitaria di Samsung ma in quel momento il selfie è diventato un comportamento socialmente desiderabile: se lo fanno anche i personaggi famosi… Seguiranno altri selfie VIP come quelli del papa o di Totti durante un derby.

Narcisismo, malattia dei nostri anni

Ivan Cotroneo ha scritto:

Se negli ultimi 30 anni la malattia da curare era la depressione, per i prossimi sarà il narcisismo”.

Siamo tutti narcisisti?

Riva riprende il mito di Narciso per fare delle precisazioni. Nel mito il protagonista non cerca la propria immagine ma la subisce, invece il selfie è sempre un atto intenzionale, con il preciso scopo di condividere. Per Riva chi fa un selfie non è necessariamente un narcisista (ma certamente un narcisista si fa molti selfie).

Ma allora perché scattiamo i selfie? È una questione di definizione dell’identità. La nostra soggettività ha due facce: IO, come mi vedo da dentro (sé personale), e ME, come mi vedo e come mi vedono da fuori (sé sociale). Per chi sta ancora definendo la propria identità, come i preadolescenti, lo smartphone e i social permettono di entrare in contatto con il proprio ME. Definiscono la propria identità, anche nel confronto con gli altri. In questo contesto, i selfie stanno diventando uno degli strumenti più utilizzati dai ragazzi per definire ciò che sono e che vorrebbero diventare. Allo stesso tempo i social permettono di verificare la posizione degli altri e confrontarla con la propria per decidere chi si è e chi si vuole essere.

I tre paradossi dei selfie

Utili per definire la propria identità, i selfie però si portano appresso tre paradossi.

  • Primo paradosso: se i selfie sono un modo efficace per mostrarsi e raccontarsi agli altri, allo stesso tempo non sono in grado di rappresentarci in maniera completa. Anzi assumono vita propria, continuando a raccontarci nello stesso modo anche quando siamo cambiati (quella foto sbagliata alla festa ci può perseguitare).
  • Secondo paradosso: se attraverso i selfie possiamo modificare fugacemente la nostra identità sociale, è però vero che i nostri selfie possono anche essere utilizzati da altri per modificarla anche se non lo vogliamo (vedi l’uso ricattatorio del sexting).
  • Terzo paradosso: se attraverso i selfie possiamo scegliere quali caratteristiche sottolineare della nostra identità sociale all’interno delle diverse reti che frequentiamo, tutti i frammenti possono essere rimessi insieme per individuare la nostra vera identità (vedi i ragazzi che passano la prima selezione del personale per un buon CV o un preciso profilo LinkedIn ma poi vengono scartati per le foto che condividono su Facebook e Instagram).

I numeri dei selfie degli adolescenti

Veniamo infine ai numeri: Riva cita diverse ricerche sul tema selfie. In particolare mi ha colpito una ricerca dell’Osservatorio sulle tendenze e comportamenti degli adolescenti su 7000 ragazzi tra i 13 e i 18 anni. Ci dà un’esatta dimensione del fenomeno selfie.

I ragazzi si scattano una media fra i 3 e gli 8 selfie al giorno, con punte di 100!

Il 31% degli adolescenti si fa i selfie per ricordo, l’11% per noia e l’8,5% per ridere. Il 15,5% condivide tutti i selfie sui social e WhatsApp, soprattutto le ragazze. Un adolescente su 10 fa selfie pericolosi in cui mette potenzialmente a repentaglio la propria vita, soprattutto i maschi (purtroppo esiste anche il fenomeno del killfie: il selfie letale).

Un’altra ricerca su 150 giovani, proprio di Riva per l’Università Cattolica e la fondazione IBSA, approfondisce il tema della relazione tra tratti della personalità e selfie. Ci sono i ragazzi estroversi e quelli coscienziosi. I primi usano i selfie per mostrarsi (fino ad arrivare all’oggettivazione del proprio corpo, usato come strumento per piacere), in particolare le donne sono molto sensibili ai commenti che i selfie scatenano sui social. Chi è coscienzioso usa i selfie in maniera più strategica per trasmettere una specifica immagine di sé, ed è meno interessato ai commenti degli altri, positivi o negativi che siano.

Ascolta la puntata del mio podcast “Genitorialità e tecnologia” sui selfie

Ascolta “1×10 I selfie: 4 cose che i genitori devono sapere” su Spreaker.

La Rete, i social e gli smartphone possono creare dipendenza?

In Cina esistono centinaia di centri di trattamento per la dipendenza da Internet. È il governo cinese a promuovere la cura di persone che hanno completamente perso il controllo, e che i genitori portano in questi centri a volte con l’inganno. Esiste anche un documentario sul fenomeno (Web Junkies), che si trova facilmente in Rete; questo è il trailer:

Da tempo si parla di dipendenza dalla Rete: Internet addiction (o IAD). In un articolo su questo sito ho elencato 15 statistiche incredibili, che puoi leggere qui. Va detto, però, che spesso vi è, soprattutto da parte dei genitori, una tendenza a drammatizzare, confondendo l’uso eccessivo, comunque problematico, con una vera patologia: malattia che riguarda una piccola minoranza degli utenti della Rete (tra l’1% e il 9%). Secondo il sito Dipendenze.net:

“I numeri dell’uso di internet e della dipendenza ci dicono che in Italia i dipendenti da internet sono quasi tutti giovani e giovani-adulti e, considerando i livelli di gravità severo e moderato, sono circa il 6%, mentre in Inghilterra il 18% degli studenti usa internet in modo eccessivo, in Norvegia l’1% e in Grecia l’8% è dipendente. Ma è nel continente asiatico che i tassi d’incidenza sono più elevati, oscillano dall’1% al 25%” (fonte).

Una ricerca ancor più recente, condotta da Skuola.net, Università La Sapienzà e Università Cattolica di Milano per conto della Polizia di Stato su 6.671 persone tra gli 11 e i 25 anni evidenza che il 45% degli utenti passa su Internet almeno 5-6 ore al giorno, anche nel fine settimana. Quando manca la connessione alla Rete, un intervistato su cinque dice di sentirsi a disagio.
Ricapitolando occorre distinguere, come fa Israelashvili, tra ragazzi che abusano della Rete, forti utenti e dipendenti: secondo l’autore le prime due categorie non configurano una dipendenza e sono strettamente correlate agli scopi identitari dell’età e alle esigenze della vita adolescenziale.

Le caratteristiche della dipendenza dalla Rete

La dipendenza dalla Rete, a detta di Block JJ, è una patologia che si presenta con quattro caratteristiche ben precise.

  1. Uso eccessivo associato alla perdita della cognizione del tempo e che finisce per far trascurare i bisogni fondamentali, come l’alimentazione e il sonno. A proposito di sonno va registrato un aumento spaventoso del cosiddetto fenomeno del vamping: l’abitudine degli adolescenti di navigare di notte. L’Osservatorio nazionale adolescenza ha condotto uno studio su 8.000 ragazzi a partire dagli 11 anni d’età. È emerso che 6 su 10 dichiarano di rimanere spesso svegli fino all’alba a chattare, parlare e giocare, rispetto ai 4 su 10 nella fascia dei preadolescenti.
  2. Chiusura verso l’esterno, con sentimenti di rabbia, tensione e/o depressione quando il computer non è accessibile. Qui occorre richiamare le sindromi dette Fomo e Nomofobia, di qui avevamo già parlato qui. Va segnalato, inoltre, il crescente fenomeno dei giovani hikikomori: coloro che rifiutano qualsiasi contatto con l’esterno perché vittime di bullismo o perché rifiutati dai coetanei.
  3. Persistenza, con richieste di nuove dotazioni tecnologiche, migliori software, più tempo per stare al computer.
  4. Ripercussioni negative, come frequenti litigi con i familiari, facilità nel mentire, ridotta produttività professionale o scolastica, isolamento sociale, stanchezza.

Chi è più soggetto a diventare dipendente? Fioravanti fa un collegamento empirico tra la mancanza di abilità sociali e la dipendenza da Internet: in pratica ipotizza che le persone con scarse social skill siano le più soggette a sviluppare una preferenza per l’interazione sociale on line, che poi predice a sua volta un utilizzo problematico.

Quanto usano la Rete i nostri ragazzi?

La fascia di popolazione più a rischio è quella degli adolescenti. Raro che si arrivi a sintomi depressivi, però. Spesso si parla solo di “information overload” (qualcuno parla di “infobesità”) o, più prosaicamente, di “technostress”. Ma quanto usano la Rete i nostri ragazzi? Possiamo rispondere a questa domanda con dei dati concreti. La ricerca “Indagine sull’uso dei nuovi media tra gli studenti delle scuole superiori lombarde” (consulta lo studio qui) condotta da Marco Gui nel 2013 ha fatto emergere un dato interessante: la permanenza online media giornaliera dei ragazzi di seconda superiore è di circa tre ore.

Ma è inversamente proporzionale all’impegno richiesto dalla scuola: mentre i ragazzi dei licei navigano per circa 2 ore e 48 minuti (in media), quelli degli istituti tecnici lo fanno per 3 ore e 5 minuti, quelli degli istituti professionali 3 ore e 10 minuti, quelli dei Centri di formazione professionale infine superano tutti gli altri con circa 3 ore e 15 minuti al giorno. Altro dato interessante: chi ha genitori stranieri immigrati in Italia naviga di più di chi ha entrambi i genitori italiani.

All’inizio della diffusione di Internet in Italia i risultati erano opposti: i ragazzi dei contesti sociali più avvantaggiati erano i maggiori utilizzatori delle nuove tecnologie. Evidentemente, fa notare Marco Gui, la quantità di consumo di Internet non può più essere considerata un indicatore di inclusione sociale come si faceva all’inizio.

Come si cura la dipendenza dalla Rete?

Nei casi meno gravi di dipendenza da Internet si può ricorrere anche al nudging (vedi libro Richard H. Thaler, Nudge, la spinta gentile, Feltrinelli), che in economia comportamentale individua una serie di rinforzi positivi o aiuti indiretti che possono influenzare decisioni e comportamenti. In un interessante articolo di Marianna Vaccaro sul digital detox da smartphone, si racconta un esperimento particolare. In due locali milanesi sono state posizionate sui tavoli delle scatole di legno, all’interno delle quali era possibile inserire i propri smartphone. Su ogni scatola si trovavano degli adesivi con la scritta “Sei davvero social? #posalo”, invitando i clienti ad abbandonare i telefonini (un chiaro tentativo di far leva sull’effetto gregge). È stata poi monitorata la frequenza di utilizzo degli smartphone prima e durante l’esperimento: prima il 25% dei clienti utilizzava lo smartphone, dopo solo il 15%.
La cura della “vera” dipendenza da Internet, dicono gli esperti, richiede invece un intervento psicoterapeutico di tipo cognitivo comportamentale. La terapia è sostanzialmente questa: mentre si riduce l’uso della Rete, si incentivano comportamenti e attività alternativi, gratificanti, in sostituzione. Raramente si ricorre all’uso degli psicofarmaci, a meno che il terapeuta non abbia diagnosticato anche la depressione.

I consigli dell’esperto

Nel mio podcast “Genitorialità e tecnologia” ho intervistato su questi temi Alberto Rossetti, psicoterapeuta e autore di “Nasci, cresci e posta. I social network sono pieni di bambini: chi li protegge?”:

Ascolta “1×09 Hikikomori, dipendenza e regole: intervista ad Alberto Rossetti” su Spreaker.

Introduzione ai temi della genitorialità e tecnologia: l’intervista a Radio Panda

Il 26 aprile 2018 sono stato intervistato da Radio Panda, in occasione dell’uscita del “Prontuario per genitori di nativi digitali“. È stata un’occasione per parlare di genitorialità e tecnologia, e dei pericoli della Rete in generale.

L’intervista è finita all’interno del mio Podcast “Genitorialità e tecnologia”:

Tre motivi per leggere “Metti via quel cellulare” di Cazzullo

“Metti via quel cellulare”, libro di meno di 200 pagine pubblicato nel 2017 da Mondadori, lo ammetto, mi incuriosiva ma ero scettico: temevo che la lettura mi facesse perdere tempo. Invece ho letto volentieri il testo che il giornalista del Corriere della Sera ha scritto con i due figli (una liceale e uno studente di Scienze Politiche), pur con qualche perplessità, e ho individuato tre motivi per cui vale la pena leggerlo.

  1. Nei miei corsi racconto che i più grandi esperti di tecnologia e genitorialità, per esempio Alberto Pellai, suggeriscono di non proibire la tecnologia, ma di usarla in famiglia, trasformarla in un momento di condivisione (c’è chi suggerisce di organizzare dei “tech talk”). È per questo che ho creato il corso sulla navigazione familiare. Nel libro di Cazzullo questa logica del confronto è alla base del testo. Si tratta di un ping-pong di opinioni, un confronto costruttivo tra generazioni.
  2. Il libro dimostra che, come sempre, bisognerebbe andare oltre gli stereotipi. In particolare per quanto riguarda i due giovani, Millennial o della generazione successiva, è godibile leggere il loro punto di vista e, in alcuni casi, il ribaltare alcune concezioni errate. Per fare solo un esempio, quando li si accusa di perdersi dietro agli youtuber, ridimensionano le varie Sofia Viscardi e soci, ma soprattutto rispondono che gente come Gianluca Vacchi (il cinquantenne di buona famiglia diventato un influencer a colpi di tatuaggi e balletti sui social) non è certo roba loro. Sospetto che il gioco di Cazzullo sia questo: in alcuni passaggi fare la parte del bigotto per fornire una serie di assist ai figli.
  3. Vi si leggono alcuni spunti interessanti, Cazzullo è una buona penna. Me ne sono appuntati alcuni:
  • Non parlate attraverso il cellulare. Parlate al cellulare
  • Il telefono e la Rete sono il più grande rincoglionimento della storia dell’umanità
  • Avete presente quando si rallenta in macchina perché nell’altra corsia c’è un incidente? Internet è l’incidente.
  • Si fotografa in continuazione per sottrarre momenti all’oblio
  • On-line non vengono premiati i migliori, ma i più bravi nelle pubbliche relazioni
  • Un floppy disk è infinitamente più vecchio della stele di Rosetta

Insomma, il libro è godibile e merita una lettura. Per i genitori come me, ma anche per i ragazzi.

Se vuoi leggere altri articoli sul tema “Genitorialità e tecnologia”, vai su “Genitori tech“.

YouTube: qual è l’età minima per usarlo?

Nei corsi sull’uso consapevole della tecnologia in famiglia che tengo da cinque anni (vedi per esempio il corso sulla Navigazione familiare), vi sono alcune domande ricorrenti. Tra queste, qual è l’età minima per usare i vari WhatsApp, Instagram e anche YouTube? Se alle prime due domande ho risposto con altrettanti articoli (vedi quello su WhatsApp qui e su Instagram qui), tocca rispondere anche alla questione sulla soglia di ingresso per entrare nel mondo dei video online, degli youtuber, delle playlist e così via.

L’età minima per usare YouTube

Com’è noto, YouTube è parte della grande galassia Google (in realtà ora l’azienda si chiama Alphabet). Quindi deve rispettare le regole della grande G:

“Per accedere a YouTube, devi disporre di un account Google che soddisfi i requisiti minimi di età.  Se un video viene segnalato e riscontriamo che l’autore del caricamento ha dichiarato un’età non esatta durante il processo di creazione dell’account, provvederemo alla chiusura del suo account”.

Ma quali sono questi requisiti minimi di età stabiliti per tutti i servizi Google (e quindi anche per Gmail, Google Documenti, Keep e così via)?

Sebbene l’età minima di uso degli strumenti Google, e quindi di YouTube, non sia uguale per tutte le nazioni – per esempio in Spagna è di 14 anni e nei Paesi Bassi addirittura 16 – nel nostro Paese, così come nella maggior parte del mondo occidentale, l’età minima è di 13 anni (vedi qui). La stessa di Facebook, Instagram e, da qualche tempo, anche di WhatsApp.

Vi possono anche essere indicazioni differenti a seconda del contenuto, però. Su YouTube, quando a un video sono stati applicati limiti di età (per esempio perché contiene un linguaggio volgare, scene violente o di nudi), è visualizzata una schermata di avviso e soltanto gli utenti maggiorenni possono guardare il contenuto.

Il nuovo regolamento europeo

Va detto che Il nuovo Regolamento europeo sulla privacy (denominato GDPR) prescrive l’obbligo di “non consentire l’offerta diretta di servizi della società dell’informazione (quindi iscrizione ai social network e ai servizi di messagistica) a soggetti minori di 16 anni”, a meno che non sia raccolto il consenso dei genitori. Questo aspetto può però essere regolato diversamente dai singoli Garanti nazionali (ma il limite invalicabile è comunque quello dei 13 anni). Al momento il Garante italiano non si è ancora espresso formalmente.

La novità di YouTube

Dal 12 settembre 2018 è ufficiale: è arrivata in Italia YouTube Kids, la app pensata per le famiglie e i bambini, in pratica una versione protetta di YouTube in cui i bambini dai tre ai dieci anni possano guardare cartoni animati, video musicali e filmati didattici. Leggi l’articolo che ho scritto al riguardo:

YouTube Kids: che cos’è e prova sul campo

Il videocorso per genitori

Ho realizzato un videocorso gratis per genitori: 10 esercizi di igiene digitale. Fai clic qui, o sull’immagine, per iscriverti.

Social e minori: perché le foto delle mie figlie non sono online

A ogni incontro sull’uso consapevole della tecnologia che faccio per i genitori di mezza Italia (vedi per esempio il corso sulla navigazione familiare), racconto che le foto delle mie due figlie non solo online. Per un paio di ragioni.
Al di là delle questioni legali (che affronterò nella seconda parte di questo post), la prima è una questione di opportunità. Una volta che le foto sono pubblicate o postate, o inviate in privato su WhatsApp, sono irrimediabilmente perse. Non ho più alcuna possibilità di controllarne la diffusione. Del resto nell’era digitale i contenuti pubblicati hanno sostanzialmente quattro caratteristiche:

  1. i file che inviamo online rimangono potenzialmente per sempre (persistenti);
  2. sono copiabili senza limitazioni (replicabili);
  3. possono raggiungere un pubblico ampissimo (scalabili);
  4. sono sempre trovabili grazie a parole chiave associate a foto e video (ricercabili).

La seconda ragione è di carattere personale: le mie bimbe sono persone e in futuro avranno il diritto di gestire la propria presenza online come meglio credono, senza essere associate alle foto che ho diffuso io. I figli, inoltre, ci chiedono coerenza: come posso dire alle mie figlie di non sovraesposti, per esempio postando selfie in continuazione, se fino al giorno prima ho pubblicato io le loro immagini?

Qui puoi vedere un video di un mio intervento sul tema per genitori e figli della scuola media di Cornate D’Adda (LC):

Gli aspetti legali

Tra i docenti di Primopiano, azienda per la quale faccio formazione per i giornalisti, c’è anche l’avvocato Marisa Marraffino, esperta di reati informatici e dei rischi della Rete in generale; inoltre collabora a progetti contro il cyberbullismo nelle scuole, a Master universitari e con la sezione “Norme e Tributi del Sole 24 Ore” (vedi per esempio questo articolo sul cyberbullismo).

Le ho chiesto di chiarire, dal punto di vista legale, la relazione tra genitorialità e contenuti dei minori online. In questa breve intervista, l’avvocato Marraffino spiega che il minore è portatore del diritto alla riservatezza, e cita diverse pronunce. Per esempio quella del Tribunale di Livorno, che ha ordinato al genitore di disattivare l’account creato a nome del figlio minorenne, oppure quella del Tribunale di Mantova: sancisce che per pubblicare le foto dei minori sul Web ci vuole il consenso di entrambi i genitori. L’avvocato ricorda che, come si legge nel testo unico della privacy, la foto è un dato personale.
In Italia la tutela dei figli è rafforzata dalla legge di ratifica della convenzione sui diritti del fanciullo di New York, che sancisce il diritto all’identità digitale, anche sui social network. Il rischio, sempre più concreto, è quello che i genitori vengano trascinati in tribunale dai figli, come già successo, per esempio, in Francia.

Se vuoi leggere altri articoli sul tema “genitorialità e tecnologia”, visita questa pagina.

I Premi di Studio e di Laurea 2017 della BCC Milano di Carugate

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Il 17 dicembre 2017 sono stato invitato dalla BCC Milano, sede di Carugate, per l’evento “I Premi di Studio e di Laurea 2017”: la banca ha premiato i migliori studenti dell’anno scolastico 2017/18, i laureati e una start-up che ha finanziato.
Ho parlato di uso consapevole dei social network davanti a 500 persone, tra genitori e figli. Queste le foto dell’evento:

Qui invece trovate le slide che ho usato durante la presentazione:

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