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“ChatGPT, come stai? Il prompt engineering come nuova skill ibrida” [VIDEO DI PRESENTAZIONE]

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Il 28 febbraio 2024 ho dato alle stampe, con l’editore Ledizioni (collana “Fai da tech“), il libro “ChatGPT, come stai? Il prompt engineering come nuova skill ibrida”. Il testo è al tempo stesso una riflessione innovativa sul rapporto tra umani e intelligenze artificiali generative e un manuale pratico. L’obiettivo è quello di guidare il lettore in un viaggio attraverso le sfaccettature dell’AI, analizzando la capacità “emotiva” e di “comprensione” di ChatGPT e degli altri modelli di linguaggio (LLM) Il testo illustra, passo a passo, come interagire efficacemente con i chatbot grazie al promptengineering, sfruttando trucchi, tecniche evolute e metodi esclusivi come G.O.L.D. e SO.C.RA.T.E.

Ecco il video di presentazione del libro:

Ringrazio la rivista Advisor Private per aver segnalato il mio libro:

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Perché non mi è piaciuto “Bassa risoluzione” di Mantellini

Bassa risoluzione, libretto Einaudi di Massimo Mantellini, è un testo in bassa risoluzione.

Prima di parlarti del volume, però, fammi fare una premessa. In ogni corso che faccio, soprattutto quello sul social media marketing o LinkedIn, affermo che siamo nell’era di Tripadvisor e che si può recensire di tutto: anche le persone. Figuriamoci i prodotti culturali. Predico bene ma una volta ho razzolato male: mi sono trovato in una libreria e ho acquistato, d’impulso (mai più), il testo in oggetto. In ogni caso non avrei trovato nulla, il testo è in vendita da pochi giorni. Avrei dovuto quindi aspettare ed evitare di essere, per una volta, un early adopter.

Chiariamo: il libretto è se vuoi anche interessante, ben scritto. Peccato però che sul tema della bassa risoluzione, ovvero sul fatto che Internet ci faccia perdere la profondità in tutti i campi (informazione, cultura, relazioni e così via), avevo già letto, anni fa, un altro testo. Questo molto più completo e interessante (e che Mantellini non cita nemmeno, l’avrà letto?). Si trattava di “Good enough society” di Paolo Magrassi. Così ne parlavo nel mio “Non mi piace”, il contromanuale di Facebook:

“Viviamo nella “good-enough society”, l’era del buono quanto basta: non serve la qualità ottimale del CD, basta l’MP3; non consultiamo le enciclopedie, tanto c’è Wikipedia; telefonate con audio perfetto? Il VOIP di Skype è più che sufficiente”.

Mantellini, ottimo giornalista informatico che scoprii tanti anni fa seguendo Punto Informatico, cita nel libro alcuni esempi di bassa risoluzione, di “buono quanto basta” direbbe Magrassi. Parla di musica, per esempio: tema a me caro perché l’ho studiato e raccontato in “Musica liquida”. Ma la storia di MP3 e streaming è liquidata (scusa il gioco di parole) in pochissime frasi. Poi parla di selfie, film in prima visione piratati, notizie su Facebook e finisce con l’elencare altri esempi per nulla tecnologici: dalle cucine IKEA alle pareti di compensato (!), dalla free press ai voli low cost. A proposito di low cost, tra parentesi, se vuoi leggere invece una bella inchiesta sul tema, c’è sempre il buon vecchio “Italia low cost” (ne parlai in TV, qualche anno fa: vedi qui).

Insomma, il testo di Mantellini, infarcito anche di buone citazioni, non pretendeva di essere esaustivo, ma mi ha deluso ugualmente. Forse, come dicevo all’inizio, è solo coerente: un libro sulla superficialità non poteva essere anche utile.

“Nello sciame”: 10 cose che ho imparato dal libro di Han

Byung-Chul Han, fino a un mese fa, non sapevo nemmeno chi fosse. Poi qualcuno mi ha suggerito di leggere il testo “Nello sciame. Visioni del digitale” di questo pensatore coreano di lingua tedesca e per caso ho letto un articolo online che parlava di lui; da lì al carrello di Amazon il passo è stato breve.


Letto in un batter d’occhio, il libretto “Nello sciame” mi ha stuzzicato parecchio. Nel testo, seppur breve (un centinaio di pagine con font a prova di orbo) ci sono tanti spunti. Ne ho voluti fissare 10 in ordine rigorosamente sparso, a mo’ di appunti.

  1. Ci inebriamo del medium digitale, senza essere in grado di valutare le conseguenze di simile ebbrezza. Questa cecità e il simultaneo stordimento rappresentano la crisi dei nostri giorni.
  2. Abbiamo bisogno di rispetto, pudore e distanza; invece la comunicazione digitale riduce le distanze. Sia fisiche che mentali. Han parla addirittura di esibizione pornografica della intimità: i social sono spazi di esibizione del privato.
  3. L’anonimato in Rete, il suo uso impulsivo, la mancanza di rispetto e di distanza portano al fenomeno degli shitstorm (montagna di letame, escrementi).
  4. La comunicazione ora è simmetrica: online si legge ma si può anche scrivere, produrre informazioni (si parla di prosumer). Questo nuoce al potere, che solitamente usa l’informazione in un’unica direzione. Politicamente parlando, tutti vogliono essere presenti ma non rappresentati.
  5. Avere troppe informazioni non significa prendere decisioni migliori, anzi. Al posto del big brother, avremo il big data.
  6. La massa online non ha massa fisica. È uno sciame digitale, non è una folla: non ha un’anima, non c’è un “noi”, ma è un insieme composto da individui isolati, da hikikomori (in giapponese coloro che hanno scelto di ritirarsi dalla vita sociale). I media elettronici, come la radio, radunano gli uomini mentre i media digitali li isolano.
  7. Viviamo un periodo di crisi letteraria e comunicativa. Assistiamo a un profluvio di pubblicazioni, ma viviamo un’era di stallo spirituale. Perché questo frastuono comunicativo disturba il nostro spirito. Il medium dello spirito è il silenzio.
  8. Lo smartphone, che promette libertà ma costringe a comunicare, è uno strumento per interloquire con sé, non con l’altro.
  9. La parola “digitale” deriva da dito, che conta. Invece la storia, le nostre storie, non sono fate per essere contate, ma raccontate. Il diario di Facebook, il flusso di tweet non sono racconti, né biografie: non c’è nulla di narrativo. Nel digitale si contano i like, gli amici, la simpatia: è la contabilità delle relazioni.
  10. Sta per iniziare l’era dei fantasmi digitali. Per esempio grazie all’Internet of Things gli oggetti potranno connettersi senza il nostro aiuto e comunicheranno tra loro: è un mondo spettrale, quello che aspetta.

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“Existential Marketing” di Iabichino e Gnasso

Dopo il marketing relazionale, emozionale, esperienziale, virale, conversazionale, non convenzionale e tribale… Dopo lo smarketing, il demarketing, l’unmarketing, il murketing, il buzz e il guerrilla… Si sentiva il bisogno di un’altra etichetta, serviva anche il “marketing esistenziale”?
La risposta è: (tendenzialmente) sì. Quello che fa il libro di Stefano Gnasso e Paolo Iabichino è spiegare che, morte le grandi narrazioni del Novecento, ora sono le aziende a dover creare “esperienze dotate di senso, capaci di colmare il vuoto esistenziale o quanto meno tentare di ridurlo”.
Il libro, interessante e ben scritto, spiega molto bene che cosa sta accadendo. Non sono qui certo per riassumerlo: leggetelo!
Qui vorrei prendere solo uno spunto del testo e proporvelo. Da tempo, infatti, tutte le volte che tengo un corso sui social network, quando parlo del Web 2.0 e spiego che cos’è UGC, lo “user generated content”, mi chiedo quanto potrà andare avanti questa storia. Per quanto tempo ancora le aziende potranno coinvolgere gli utenti per avere contenuti (e trucchetti per l’engagement) a costo praticamente zero? Per quanto riusciranno a coinvolgere la gente, voi-noi, facendo produrre foto, video, storie, tweet prima che loro-noi, ci si stanchi? Proprio nel libro “Existential Marketing” ho trovato materiale su cui riflettere. Vi si legge:

Ci siamo fatti prendere la mano dal cosiddetto user-generated content. Se nell’epoca dei mass media a nessuno potevano essere negati quindici minuti di celebrità, la profezia attribuita a Warhol e risintonizzata sui giorni di YouTube fa diventare megabyte i minuti, cosicché ogni individuo può aspirare (almeno) a 15 mega di spazio nel mare magnum della Rete. Dev’essere proprio questo che hanno pensato i primi direttori marketing alle prese con Internet perché, a un certo punto, non c’era progetto digitale che non contemplasse il contributo degli user.
A questi poveri utenti è stato chiesto di mandare video, fotografie, commenti in 140 caratteri, cortometraggi e business plan per improbabili startup. Non era il talento a interessare, ma una serie di contenuti a basso costo per popolare siti Internet, pagine Facebook e canali YouTube. Finché il giochino si è rotto e anche il fenomeno dello user-generated content è evaporato come neve al sole, insieme ai fenomeni virali fini a se stessi, agli entusiasmi per il guerrilla marketing e per i flash mob prestati alla pubblicità, una contraddizione in termini, quest’ultima, che per fortuna si è ridimensionata quasi istantaneamente”.

Detto questo, ribadisco: se siete rimasti al marketing che considera il cliente un target e non un interlocutore cui raccontare storie e da coinvolgere direttamente, vi conviene leggere “Existential Marketing” (il sottotitolo spiega molto: “I consumatori comprano, gli individui scelgono”).

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“Il manuale del crowdfunding” di Alessandro Brunello

Si fa tanto parlare, di questi tempi, di crowdfunding. C’è chi è scettico – di solito sono banchieri e finanzieri, chissà perché – e chi ne parla in termini eccessivamente entusiastici, considerandolo la panacea di tutte le crisi, l’unico modo, ormai, per realizzare un progetto, lavorativo o meno, senza scucire un euro. Come sempre la verità sta nel mezzo. E come sempre, per comprendere un fenomeno, è meglio farselo spiegare da chi lo conosce. Nel caso, Alessandro Brunello, autore de “Il manuale del crowdfunding”, edito da LSWR.

Brunello spiega che cos’è il crowdfunding, definito anche “finanziamento dal basso” o “finanziamento sociale” (il mondo finanziario diventa 2.0), perché la disintermediazione creditizia fa così paura (al pari dei Bitcoin, spauracchio delle autorità monetarie) e soprattutto quali sono i modelli più diffusi, ibridi a parte. Si scopre così che è possibile semplicemente promettere una ricompensa simbolica, come i credits nel libretto di un CD (esistono ancora i CD?) – e qui si parla di modello “reward based”. Oppure esiste un modello per aziende che vogliono raccogliere il capitale sociale – “equity based”. O ancora si parla di prestiti “peer to peer” tra cittadini, come nel caso di Prestiamoci.
Per chi volesse provarci c’è anche una parte pratica, dove si scopre come si fa una campagna, quali sono le piattaforme disponibili (per esempio le big Indiegogo e Kickstarter o le nostrane Kapipal e Eppela) e che cosa serve per partire: spesso indispensabile un bel video dove si spiega il progetto e un’idea sulla strategia social. Interessante la nutrita sezione di “best practice”.

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“Guadagnare su Internet con WordPress” di Bonaventura di Bello


Non bisogna essere dei consumati Webmaster per mettere in piedi un sito: basta smanettare un po’ con sistemi di CMS come WordPress. Ma anche rendere il sito profittevole non è proibitivo: Di Bello – programmatore, consulente e giornalista – spiega prima come realizzare e ottimizzare il sito, poi come darsi all’e-commerce (in ogni sua variante). Non mancano spiegazioni semplici ma dettagliate su SEO, analytics, pagamenti, siti ad accesso limitato e tanto altro ancora.

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