Articoli

Qual è la differenza tra marketing e comunicazione? [Lavori di gruppo del corso di Net Marketing dell’Accademia SantaGiulia]

,

Dal marzo 2022 tengo il corso di net marketing (titolo anni Novanta!) presso l’Accademia di Belle Arti SantaGiulia di Brescia. L’obiettivo del corso è far comprendere agli studenti i concetti chiave del digital marketing e della comunicazione digitale aziendale.

Nella prima lezione, tenuta il 10 marzo, il tema chiave era la differenza tra marketing e comunicazione, spesso poca chiara. In realtà la differenza è netta. Secondo una definizione classica, “il marketing, attraverso l’analisi della domanda, individua i bisogni del cliente e definisce le azioni e i processi atti a soddisfarli, creando il massimo profitto per l’organizzazione da diversi punti di vista: economici, reputazionali, di accrescimento della brand equity (valore della marca) e di opportunità di mercato”. Tra gli strumenti a disposizione di chi fa marketing c’è anche la comunicazione: sito Web, campagne social, brochure, volantini, eventi, spot e così via. Secondo Paolo Enrico, prima di essere comunicazione, il marketing è strategia, vision, coordinamento.

Per spiegare questa differenza ho citato il caso dell’acqua minerale in bottiglia, che puoi ascoltare in questo video:

Dopo la parte teorica, gli studenti si sono divisi in gruppi per fare degli approfondimenti, analizzare casi di studio e realizzare delle presentazioni sulle diverse tematiche. Riporto in questa pagina i loro contributi.

Un gruppo (composto da Monica Velaj – Marco Grandi – Marco Muzzin – Luca Perini) ha lavorato sulla differenza tra marketing e comunicazione a partire dall’esempio di Gilette, citando la campagna “Shave like a bomber” con Bobo Vieri:

Caso_studio_Marketing_Comunicazione_Gilette

Un altro gruppo (Martina Bellomi – Maria Boninsegna – Giulia Boselli-Botturi) ha analizzato il viaggio del cliente (con il modello delle 5A, che ho illustrato nel video sull’Oculus) prendendo a esempio il caso della GoPro:

Caso_studio_5A_GoPro

Un terzo gruppo (Alberto Venturini – Elia Tabarelli – Elena Sandrini – Roberta Cannavò – Pietro Fausto Filareto) ha illustrato le differenze tra inbound marketing (o content marketing) e outbound marketing:

Inbound_outbound

Qui invece l’anali della comunicazione social di Trussardi  (che avevo trattato nel video “Perché le foto social di Trussardi fanno schifo? 3 ipotesi campate per aria“) da parte del quarto gruppo (Bianchessi Eugenia – Facchinetti Sara – Ferrari Cristian – Fornari Sara):

Caso_studio_Trussardi

Infine un ultimo gruppo (Eleonora Manzo – Laura Ferri – Francesca Chiabotto – Giovanmaria Crescini) ha trattato del rebranding da Facebook a Meta:

Brand_washing_facebook

 

 

Il Brand Activism spiegato in 5 esempi

,

Il tempo passa, cambiano le abitudini. Non c’è solo la pandemia a preoccupare: l’emergenza climatica, il riscaldamento globale, le discriminazioni sono alcuni dei problemi che affliggono la nostra società, composta più da consumatori che da esseri umani.

In un mondo in cui i media tendono a celebrare “solo” quei personaggi che ce l’hanno fatta o quei brand che sono diventati iconici, i più giovani sono diventati i principali promotori di un cambiamento per salvare non solo il pianeta ma l’intera società. Dopo aver richiesto a gran voce non solo a politici, banchieri, economisti e ad altre figure di primo piano del panorama mondiale di assumere una posizione netta per risolvere i problemi più sentiti, i ragazzi e le ragazze appartenenti alla generazione dei “Millennials” o a quella successiva della “Gen Z” hanno rivolto la loro attenzione ad aziende e imprese.

Il voto col portafoglio, per esempio, è un termine coniato da: Leonardo Becchetti (Ordinario di Economia Politica presso la Facoltà di Economia dell’Università di Roma “Tor Vergata”) per premiare o, viceversa, punire, aziende e nazioni responsabili (o irresponsabili) dal punto di vista sociale e ambientale. Perché la “dichiarazione del purpose” ai ragazzi e alle ragazze di questa generazione ormai non basta più: è necessario passare all’azione. Infatti, nel processo decisionale che porta all’acquisto, le nuove generazioni prestano attenzione ad altri fattori come i valori e la possibilità di riconoscersi in un brand piuttosto che la qualità del prodotto/servizio oppure il suo costo. Le aziende/brand che prendono posizione sono apprezzatissime dai Millenials o dai Gen Z.

È cambiata la percezione del brand

Se fino a qualche anno fa le aziende creavano valore semplicemente sfruttando le risorse interne, negli ultimi tempi c’è stato un cambio di paradigma: le stesse società (più specificatamente i brand) hanno stravolto completamente il loro approccio e hanno iniziato a utilizzare prodotti e servizi per trasmettere messaggi di carattere politico, sociale e culturale.

Il brand stesso è diventato qualcosa di più di una semplice marca: si è trasformato nell’espressione di quei valori che sintetizzano la visione aziendale e che sono parte integrante della strategia di comunicazione. Azienda e brand diventano così i promotori di un modello di business in cui il raggiungimento degli obiettivi economici è correlato o subordinato all’impegno stesso degli stessi soggetti in cause di rilevanza sociale, politica e ambientale: il famoso “brand activism”.

La nascita del brand activism

Contrariamente a quello che si può pensare, il brand activism è un fenomeno piuttosto recente: il libro “Dal purpose all’azione” scritto da Philip Kotler e Christian Sarkar è quello che è possibile considerare come il manifesto/testo di riferimento di questo modello di business. In base alla definizione data dai due autori, il brand activism non è altro che

La strategia (o le strategie) attraverso cui un’azienda si fa promotrice di una causa.

Oltre a stravolgere la visione stessa dell’azienda, questo modello punta a stravolgere anche il processo decisionale dei clienti nella fase di acquisto. Il brand activism può essere di due tipi, progressivo o regressivo.

Nel primo caso, le aziende/imprese si fanno carico del cosiddetto benessere collettivo impegnandosi in una serie di “cause” sociali: è una strategia che viene utilizzata soprattutto per migliorare la reputazione di un brand, soprattutto se operano in certi settori.

Nel secondo caso, invece, le aziende puntano a massificare il profitto e a minimizzare gli effetti negativi dei propri prodotti su temi come la salute o l’ambiente: l’industria del tabacco è il classico esempio (basta ripensare ad alcune celebri campagne pubblicitarie del passato).

Un altro aspetto che è importante considerare è l’ambito in cui viene svolto/proposto il brand activism. Il campo sociale, per esempio, viene utilizzato spesso dalle aziende, così come quello economico e politico. Negli ultimi anni, le tematiche ambientali hanno conquistato il cuore di molti prestigiosi marchi: il brand activism, però, può essere utilizzato anche per questione organizzative lavorative o per politiche interne. Se i più giovani  tendono ad apprezzare quelle aziende capaci di prendere una posizione netta su questioni di carattere politico/sociale, gli adulti paradossalmente sembrano credere meno nell’importanza del brand activism.

Il brand activism funziona davvero?

A questo punto ti starai sicuramente chiedendo se il brand activism sia davvero efficace. Quando il consumatore acquista un prodotto o un servizio cerca qualcosa che rispecchi e incarni i valori in cui crede: con l’acquisto chiede anche all’azienda di agire, di diventare parte attiva del cambiamento e di farsi carico dei problemi sociali. Durante la pandemia, infatti, il brand activism è letteralmente esploso: l’emergenza sanitaria ha spinto molte aziende e marchi prestigiosi a dare “quel” qualcosa in più per migliorare la società. Per farti capire come funziona il brand activism, eccoti una serie di esempi, alcuni più clamorosi (vedi Nike) altri molto più vicini a noi.

Nike contro le discriminazioni

Il colosso dell’abbigliamento sportivo di Beaverton non è nuovo a campagne di questo tipo. Per esempio, nel 2018 aveva firmato come testimonial nientepopodimeno che l’ex quarterback dei San Francisco 49ers Colin Kaepernick, messo letteralmente al bando dall’intera lega NFL per essersi inginocchiato durante la celebrazione dell’inno nazionale durante le partite. Con questo gesto il giocatore cercò di sensibilizzare l’opinione pubblica statunitense sull’oppressione degli afroamericani e delle minoranze etniche. Questo è un perfetto esempio di brand activism: Nike lo ha preso come testimonial della campagna “Believe in something, even if it means sacrificing everything” (credi in qualcosa, anche se significa sacrificare tutto il resto) con tanto di “Just Do It” piazzato nei cartelloni pubblicitari. E sempre in tema di discriminazione razziale, la multinazionale americana ha recentemente cambiato in una campagna pubblicitaria il suo iconico slogan “Just Do It” in “For Once, Don’t Do It” (per una volta, non farlo).

Diesel in favore della sostenibilità ambientale

Un altro esempio di bran activism può essere la campagna realizzata da Diesel in piena pandemia. Con “Diesel for Responsible Living” il messaggio dell’azienda di Renzo Rosso è stato chiaro e in linea con le aspettative delle nuove generazioni che richiedono una presa di posizione netta in favore della sostenibilità ambientale ed economica per avere un futuro migliore. Considerando che Diesel si è sempre distinta per l’innata capacità di rompere i soliti schemi, il brand activism in questo specifico contesto funziona ed è credibile.

Loop, l’economia circolare è una necessità

Ogni anno lo spreco alimentare riguarda oltre un terzo del cibo prodotto nel nostro pianeta. Sprecare cibo equivale a sprecare anche le risorse usate per produrlo (terra, energia e acqua), senza dimenticare un aumento nella produzione dei rifiuti alimentari e un incremento nelle emissioni di gas serra. Lo spreco non riguarda solo il consumatore finale ma l’intera filiera produttiva.

Per limitare questo spreco, Loop ha puntato sulla realizzazione di packaging riutilizzabili. Il nome dell’azienda/brand è una certezza: il termine “loop”, infatti, viene utilizzato per indicare un processo continuo e circolare. Il cliente utilizza il prodotto e Loop si occupa di riprenderlo e di predisporlo al riuso. Sono numerosi i brand che hanno aderito a questa iniziativa: si parla di colossi del calibro di Nestlé, Carrefour, Tesco, PepsiCo, Coca-Cola e altri ancora.

Refurbed, l’azienda che rigenera i device elettronici per salvare il pianeta

Il mercato dei dispositivi ricondizionati è in continua evoluzione e si sta ingrandendo velocemente. Il processo produttivo degli smartphone è dannoso per l’ambiente: quindi, quando si acquista un prodotto rigenerato si salvaguardia il pianeta.

Refurbed è una piattaforma che si occupa di rigenerare e rivendere dispositivi elettronici. Oltre a garantire un significativo risparmio, Refurbed per ogni prodotto venduto pianta un albero in un paese a scelta del cliente.

Oberalp, l’azienda che rispetta la montagna

Specializzata nella produzione di abbigliamento e attrezzature alpine, Oberalp è un’azienda altoatesina che punta forte sulla sostenibilità ambientale. Perché essere ambientalisti significa anche scegliere materiali sostenibili e limitare inquinamento e sprechi. Riciclando della lana Oberalp, per esempio, crea delle giacche, mentre i residui delle lavorazioni tessili diventano magliette, guanti e altri capi di abbigliamento. Oltre a trasformare i rifiuti in oggetti di design (grazie al supporto dell’Università di Bologna), l’azienda di Bolzano ha limitato nella produzione l’utilizzo dei perfluorocarburi (si parla di 65%). In questo video si parla anche di work-life balance dei dipendenti:

Contattami per uno speech sulla comunicazione digitale

[VIDEO] Mastrolindo e il viaggio dell’eroe (che non sei tu!)

, ,

Ti ricordi i vecchi spot di Mastrolindo? Parto da qui per parlare di viaggio dell’eroe e, soprattutto, di come archetipi, mezzi magici e detersivi possono essere utili per capire come si deve proporre un consulente. Buona visione:

Il viaggio dell’eroe nella pubblicità e in azienda

Lo schema del “viaggio dell’eroe” è molto diffuso in pubblicità. Eccone un esempio lampante:

In questo video invece mostro come questo schema possa essere usato, in azienda, nelle Risorse Umane e nel marketing:

Cultura e digitale: come i classici e il pop aiutano a capire Web e social

Per vedere altri video su come classici e cultura pop possono spiegarci il mondo del digitale, fai clic qui.

[VIDEO] Che cosa si intende per “marketing della nostalgia”?

,

Potevo capire il ritorno del vinile: l’esperienza d’ascolto non è qualitativamente migliore, ma emotivamente più coinvolgente. Ma le musicassette? No, dai, le C90 che si smagnetizzavano, i nastri che si rompevano, i riavvolgimenti interminabili e così via… E invece le vendite musicassette sono raddoppiate nella prima metà del 2020!

Eppure da qualche tempo ci stanno propinando Polaroid, Holly e Benji e Nintendo 8 bit. Curiosità: avete visto che cosa propongono come arte per piazzare gli NFT? Un sacco di disegni pixellati! La gif del Nyan Cat, qui sotto riprodotta, è stata battuta all’asta per 590 mila dollari!

La definizione del “nostalgia marketing”

Se la nostalgia è il desiderio di rivivere momenti lontani (il passato è confortante e lo ricordiamo migliore di quello che era, Proust insegna), il cosiddetto “marketing della nostalgia” è la strategia di comunicazione basata sulla “riproposizione di un passato felice, capace di accendere i nostri ricordi e stabilire un legame emozionale con il brand“. Qualcuno parla anche di retro-marketing. Adidas, per esempio, ha una linea Vintage. Guarda questo gustoso video di Microsoft:

Alcuni esempi di nostalgia marketing

In questo video, con sigla anni Ottanta, mostro alcuni esempi di nostalgia marketing (dalle auto al cibo):

Cultura e digitale: come i classici e il pop aiutano a capire Web e social

Per vedere altri video su come classici e cultura pop possono spiegarci il mondo del digitale, fai clic qui.

Advergame, cosa sono? La mia intervista a Marco Mignano di Gladio Games per StartUp News

, ,

[Questa intervista è stata pubblicata su StartUp News]

Advergame, cosa sono? Intervista a Marco Mignano di Gladio Games

Gli advergame sono dei veri e propri strumenti per pubblicizzare l’azienda, l’idea è quella di raggiungere più persone possibili facendole divertire e in base alle meccaniche di gioco si possono targettizzare il pubblico di riferimento

Gladio Games si occupa di advergame: di che cosa si tratta?

Negli ultimi anni il settore dei videogiochi è esploso. Il fatturato dell’industria dei videogiochi supera quello del cinema sommato a quello della musica. Questo è possibile grazie alla diffusione degli smartphone, che insieme alle console ci danno la possibilità di accedere a un bacino di utenza che raccoglie svariati miliardi di utenti.Quello che molte aziende stanno iniziando a capire è che il mondo dei videogiochi, oltre a essere dedicato all’intrattenimento, può servire per pubblicizzare la propria realtà e i propri prodotti in maniera ultra innovativa e non invasiva. Noi facciamo proprio questo, realizziamo prodotti videoludici che permettono alle aziende di pubblicizzare se stesse e i propri prodotti. Come? Andando oltre la gamification! Utilizziamo le vere meccaniche che sono alla base dei videogiochi per pubblicizzare le realtà in maniera innovativa. Per esempio possiamo premiare gli utenti con ricompense reali e virtuali per aver raggiunto un certo livello, oppure ricompenseremo l’utente con monete virtuali per leggere messaggi informativi legati all’azienda, così da generare un engagement pazzesco tra i giocatori e l’azienda dietro l’advergame. La caratteristica dei nostri prodotti è che sono app standalone che si possono scaricare in autonomia dagli store e non Web app. In questo modo possiamo sprigionare appieno la potenza dei device e creare dei prodotti unici e fatti su misura in base alle esigenze del cliente.

Marco Mignano Gladio Games Startup-News

Marco Mignano, founder di Gladio Games.

Qual è il modello di business?

Ci piace vincere insieme al cliente, per questo ci facciamo totalmente carico dei costi di sviluppo degli advergame. In altre parole: lo facciamo gratis. Quello che chiediamo è che l’azienda investa del budget per pubblicizzare l’advergame, mentre noi monetizziamo inserendo la pubblicità non invasiva all’interno dell’advergame stesso. Praticamente chiediamo all’azienda di investire soldi per pubblicizzare se stessa. Questo ci permette di creare dei prodotti di una qualità superiore alla media, anche perché se così non fosse, noi non riusciremo a monetizzare il prodotto.

Ci piace vincere insieme al cliente, per questo ci facciamo totalmente carico dei costi di sviluppo degli advergame. In altre parole: lo facciamo gratis

Puoi raccontarci qualche caso di successo?

Il nostro ultimo advergame Missione Pianeta è stato sviluppato per Legambiente, con l’obiettivo di pubblicizzare la loro campagna “Tartalove”. L’app ha realizzato migliaia di download nei primi giorni, siamo ad oltre 200 recensioni a 5 stelle solo su Android e su iOS sotto la categoria “famiglia” siamo entrati ufficialmente tra le top 50 app sullo store. Ma oltre i prodotti di Gladio Games, sono molte le aziende che hanno deciso di investire in questi prodotti: per esempio aziende come Nike, Kinder o Renault hanno deciso di realizzare i propri advergame.

Che differenza c’è tra game e gamification, lato business?

La gamification sono una serie di strategie/tecniche, per la maggior parte prese in prestito dal mondo dei videogiochi che servono a rendere migliore o alzare l’engagement di un prodotto o servizio. La gamification si può utilizzare praticamente ovunque, dai processi di apprendimento, alla realizzazione di app per aumentare l’engagement e la retention. Gli advergame, invece sono dei veri e propri strumenti per pubblicizzare l’azienda, l’idea è quella di raggiungere più persone possibili facendole divertire e in base alle meccaniche di gioco si possono targettizzare il pubblico di riferimento.Inoltre gli advergame sono particolarmente efficaci quando si vuole parlare alle generazione Z, la quale è è molto difficile da raggiungere attraverso gli strumenti classici.

Il vostro lavoro è articolato, e tocca anche comunicazione digitale, advertising, social responsability, brand awareness: come stanno insieme tutte queste cose?

È proprio questa la nostra peculiarità: fare stare insieme tutti questi pezzi. Il percorso formativo che abbiamo dovuto affrontare per arrivare dove siamo non è stato un percorso semplice. Il collante di tutto è la passione. Io e il mio socio, prima ancora di fondare Gladio Games, abbiamo realizzato il nostro primo videogioco nel 2014 mentre frequentavamo il corso di laurea in informatica. Lo scoglio più grande che abbiamo dovuto affrontare è quello di riuscire a creare videogiochi di successo con una qualità sopra la media, e unire questo prodotto con il mondo del marketing aziendale.Tutto questo non è facile perché viviamo in un mondo in continua evoluzione, evolvono le tecniche e la tecnologia per sviluppare videogiochi così come i social ed il marketing. Il nostro lavoro è rimanere sempre sul pezzo e sfornare un prodotto di successo dietro l’altro.

Vuoi dare un suggerimento ad altri startupper come te?

L’unica cosa che mi sento di poter dire è quella di seguire le proprie passioni, se l’idea è quella di aprire un’azienda per il solo ritorno economico, e per il “successo” allora non si andrà lontani. Io non cambierei per niente al mondo quello che faccio, lavorare 10 ore al giorno non mi pesa, ma solo e soltanto perché amo quello che faccio e la passione è il mio driver principale.

Come trovare i veri perché dei clienti? Il mio articolo per Digital4

Questo articolo è stato pubblicato su Digital4.

Quali sono i motivi (reali) che spingono i clienti a comprare? Il metodo ideato da Sakichi Toyoda per la Toyota Motor Corporation elenca i 5 perché che spiegano come i bisogni più intimi siano legati alle nostre scelte.

Nell’ultimo libro di Seth Godin, ricco di suggerimenti (che ho raccolto nell’articolo 7 citazioni dal libro di Seth Godin “Questo è il marketing”), ho trovato in particolare uno spunto interessante su quello che motiva davvero un acquirente. Prima di vederlo, e di illustrare un metodo per trovare le cause profonde, serve un passo indietro.

La punta del trapano di Levitt

Theodore Levittprofessore di marketing dell’Harvard Business School, ha affermato: «La gente non vuole comprare un trapano con una punta da 6 mm. Vuole un foro da 6 mm». In pratica quello che si evince è che la punta da trapano è solo una funzionalità, un mezzo per raggiungere un fine. Quale? Ciò che le persone vogliono veramente, sosteneva Levitt, è il foro che realizzeranno con la punta.

Nessuno vuole davvero un foro, né lo scaffale

Secondo Seth Godin, però, la visione di Levitt è limitata, anzi sbagliata. «Nessuno vuole un foro», scrive: al di là della frase che potrebbe attirare facili e puerili battute, in effetti il trapano serve per fare un foro per montare a parete uno scaffale.
Ma Seth Godin non si ferma qui: «Quello che vogliono è la sensazione che provano nel momento in cui vedono come tutto è ordinato quando ripongono le loro cose sullo scaffale agganciato al muro, ora che c’è un foro da 6 millimetri». Spingendosi oltre, ancora più in profondità, forse i clienti non vogliono solo quella sensazione di ordine, e quindi di sicurezza, ma qualcosa che riguarda i loro più intimi desideri: vogliono anche la soddisfazione di sapere che l’hanno fatto da soli. E la reputazione che ne consegue, con coniugi e amici.

Che cosa cercano davvero i clienti?

«Le persone non vogliono comprare un trapano con una punta da 6 millimetri. Vogliono sentirsi sicure e rispettate»: questa la conclusione di Godin.
Tutto questo mi ha fatto venire in mente il metodo ideato da Sakichi Toyoda per la Toyota Motor Corporation: i cinque perché (5 Whys) (io avevo trattato in un articolo come trovare il proprio perchè: “Riepilogo di LinkedIn: come trovare il proprio perché”). Questo metodo può essere applicato per scoprire i bisogni più intimi delle persone, per esempio perché si usano le email:

1° perché: per rimanere in contatto con gli altri.
2° perché: per condividere e ricevere informazioni rapidamente.
3° perché: per sapere che cosa succede nella vita dei colleghi, amici e familiari.
4° perché: per sapere se qualcuno ha bisogno di te.
5° perché: perché hai paura di essere tagliato fuori.

7 citazioni dal libro di Seth Godin “Questo è il marketing”

Tutte le volte che leggo un nuovo libro di Seth Godin devo rimettere mano alle slide dei miei corsi sulla comunicazione e sul digital marketing: nuovi spunti, nuovi punti di vista, nuove frasi a effetto. È successo anche con “Questo è il marketing”, ultima fatica del guru americano de “La mucca viola”. Ho voluto raggruppare qui le sette idee per me più interessanti: in parte confermano e in parte innovano il mio modo di vedere una disciplina che, da qualche anno, tanto mi appassiona.

 

1.

Marketing è l’atto generoso di aiutare persone a risolvere un loro problema. 

Questa è alla base di tutta la comunicazione empatica, centrata (davvero, finalmente) sul cliente; di tutti i piani editoriali che parlano dei problemi e delle esigenze del cliente, non autoreferenziali. Seth Godin fa notare che nella Rete c’è “un miliardo di conversazioni di egoisti: raramente riguardano voi”.

 

2.

Puntate sul minimo mercato sostenibile (smallest viable market) e narrate una storia interessante per quella nicchia.

Devi stare sul mercato non per fare fatturato ma per cambiare la vita di un gruppo di persone. Non si può cambiare tutti, solo qualcuno. Basta capire chi, e come, che visione del mondo ha: occorre lavorare sulle buyer personas.

 

3.

Quello che dite non è tanto importante quanto quello che gli altri dicono di voi. 

Qui c’è il punto nodale della reputazione digitale.

Altra verità incontestabile: la prima ragione per cui qualcuno parla di voi è perché in realtà parla di se stesso. Sono orgogliosi di avervi scelto. Si ritorno al punto 1.

 

4.

La fiducia è scarsa quanto l’attenzione. Tutti sono famosi per 1500 persone. Comunicate solo con coloro che scelgono di ricevere vostre notizie: questo è il permission marketing. L’obiettivo non è massimizzare i vostri numeri sui social media. L’obiettivo essere conosciuti dal minimo pubblico sostenibile. Più di che di pubblicità, avete bisogno di pubbliche relazioni.

 

 

5.

La gente non compra una punta di trapano da 3 millimetri ma un buco da 3 millimetri. Questa celebre frase di Theodore Leavitt, professore di marketing della Harvard Business School, viene completata da Godin: le persone non vogliono nemmeno quel foro, e neanche lo scaffale che vi sarà attaccato, ma la sensazione di vedere tutto in ordine una volta ultimato il lavoro e la reputazione per aver fatto tutto da sé. Per ribadire il concetto: le persone non vogliono ciò che fate, ma ciò che il vostro prodotto fa per loro. Sempre punto 1.

 

 

6.

Tutto ciò che acquistiamo è un buon affare: ecco perché l’abbiamo comprato. Valeva (per noi) più di quello che l’abbiamo pagato, altrimenti non l’avremmo acquistato.

Bisogna vendere valore, e prima ancora bisogna comunicare valore. Se non siete disposti a provare empatia per la persona che proponete di servire, state rubando. Il problema è che non esiste un prodotto o servizio migliore per tutti, ognuno lo percepisce migliore per sé.
Il cibo per cani è studiato per i proprietari di cani. Nessuno sa che cosa pensa o vuole il cane, ed è irrilevante. I padroni comprano le scatolette per i quadrupedi solo perché li fa sentire in un certo modo.

 

7.

Abbassare il prezzo non rende maggiormente degni di fiducia: fa il contrario. Per via della dissonanza cognitiva, quando le persone sono pesantemente coinvolte (anche per via del prezzo), inventano una storia per giustificare l’impegno; e quella storia trasmette fiducia.

Quest’ultimo punto è per me nodale: sono da anni che parlo di come occorre evitare la commoditizzazione. L’ultima volta l’ho fatto per Beretta e puoi risentire lo speech “Comunicare valore” qui:

Il mio speech “Comunicare valore” per Beretta Armi (25 febbraio 2019)

,

Lo scorso 25 febbraio 2019 sono stato invitato da Beretta (azienda con 500 anni di storia!) a tenere uno speech, per agenti e clienti nello splendido scenario del poligono per tiro al piattello Trap Concaverde di Lonato, sul tema “Comunicare valore“.

Queste un paio di immagini dell’evento:

Qui trovi il video con il mio speech e le mie slide:

Mission e vision nel profilo LinkedIn: intervista a Giovanni Dalla Bona

In questo sito ho spesso usato strumenti aziendali per lavorare sul proprio personal branding: per esempio applicando le leggi di Ries o l’approccio di Sinek alla corstruzione del proprio brand. Ora faccio un passo oltre: vorrei capire se anche i concetti di mission e vision possono essere utili per arricchire il proprio profilo LinkedIn. Per farlo ho chiesto aiuto a un amico, nonché uno dei migliori formatori sui temi del digitale e del social in circolazione: Giovanni Dalla Bona. Sul suo profilo LinkedIn si presenta così: “Aiuto le aziende e liberi professionisti ad usare le opportunità offerte da Internet e dai social media, seguendole in tutte le fasi: definizione degli obiettivi, scelta delle strategie, creazione e distribuzione dei contenuti, misurazione dei risultati”.

– GIOVANNI, CHE DIFFERENZA C’È TRA MISSION E VISION?

Rispondo alla tua domanda scombinando le carte e dicendo che mission e vision, per essere definite, hanno bisogno di un terzo elemento: i valori. I valori definiscono e spiegano COME facciamo il nostro lavoro nel presente (=mission) e DOVE vogliamo arrivare con esso in futuro (=vision).

Se i valori da esprimere sono scelti con attenzione (ne puoi trovare una bella lista nel sito Corevalueslist, https://corevalueslist.com/) ne ricavi quasi automaticamente la mission, che è la loro messa in pratica giorno per giorno.

Ad esempio:

Se sono un consulente e il mio valore è l’innovazione, allora il mio impegno, la mia mission sarà quella di offrire ai miei clienti soluzioni sempre tecnologicamente all’avanguardia.

Se sono un’impresa edile e il mio valore è la bellezza, allora nella mia mission ci saranno l’attenzione ai dettagli e la cura dei particolari.

Faccio un esempio famoso: fra i valori di IllyCaffè c’è l’eccellenza e da questa nasce la sua mission.

Come puoi intuire da questi esempi, la mission ha un carattere molto pratico e, se ci impegniamo a mantenerla, i clienti la riconosceranno e diventerà il nostro punto di forza.

La vision, invece, proietta il nostro lavoro nel futuro, passando dal “ciò che siamo” al “ciò che vogliamo diventare”. La vision dà continuità ai valori di fondo, ma sposta in avanti gli obiettivi e formula desideri, più o meno concreti, su ciò che vogliamo ottenere per noi e per gli altri.

Sono esempi di vision: il ristorante tipico regionale, che vuole diventare una catena di ristoranti dedicati alla cucina locale e regionale; o il fotografo che ama viaggiare e che aspira a pubblicare sulle principali riviste dedicate al turismo.

La Vision migliori sono quelle che vanno oltre gli aspetti concreti ed entrano nel campo delle emozioni e del sogno, come ad esempio la famosa “rendere la gente felice” di W. Disney, oppure “un computer in ogni casa” di Bill Gates. Il valore di queste mission è nella loro concisione e chiarezza, ma soprattutto nel fatto che, invece di essere autoreferenziali, guardano anche al bene dei clienti o, ancora più in là, al bene di tutti. Su questi temi consiglio di vedere il famoso video in cui Simon Sinek spiega la sua teoria del Golden Circle:

 

 

– CONSIGLI DI INSERIRLE IN LINKEDIN PER PRESENTARSI?

Certamente sì, ma con una distinzione fra pagine aziendali e profili personali.

Come sai i termini “mission” e “vision” sono tipicamente usati per le descrizioni aziendali e quindi va benissimo che le aziende, per coerenza, riportino nella propria pagina LinkedIn le stesse informazioni che hanno nel sito o nei documenti di presentazione aziendale.

Per quanto riguarda i profili personali, invece, eviterei espressioni del tipo “la mia mission/vision è…”. Preferisco sostituire la mission con la descrizione dei punti di forza, magari raccontati evidenziando i propri valori e le passioni.

La vision, invece, in alcuni casi è proprio complicata da aggiungere nei profili personali. Di fatto corrisponde alle aspirazioni personali, ma bisogna valutare di caso in caso se renderla esplicita o meno: ad esempio, se sei un blogger puoi aspirare a diventare un influencer nel tuo settore e lo puoi dichiarare apertamente; ma come puoi inserire la tua vera aspirazione se, come mi è successo, sei un impiegato e ti stai adoperando per lasciare tutto e diventare un massoterapeuta? Purtroppo non ci sono ricette valide per tutti.

– CI FAI UN ESEMPIO DI UTENTE CHE HA ESPRESSO CON EFFICACIA QUESTI CONCETTI?

Proprio poche settimane fa ho aiutato un’amica, Lia Gotti, a scrivere il suo “riepilogo” di Linkedin. Non volevamo fare una lista delle competenze, ma soprattutto descrivere come Lia svolga il suo lavoro. L’uso di aggettivi come “curiosa” e “creativa”, parole come “grinta” ed ”entusiasmo” descrivono Lia al di là delle sue mansioni, sottolineando il suo carattere, le sue passioni e la sua unicità.

Inoltre, quando dice che i suoi due principali obiettivi sono “organizzare eventi memorabili e far sentire ogni partecipante una persona unica e speciale”, Lia sta di fatto descrivendo la sua mission e il suo impegno.

Ecco, partendo dal riepilogo di Lia, potremmo riassumere in questo modo l’utilità della mission e della vision: servono per poter dire in modo convincente “altri potrebbero fare le stesse cose che facciamo noi, ma nessuno potrebbe farle bene come le facciamo noi”.

Riporto integralmente il riepilogo di Lia:

Da sempre curiosa, creativa e con una sfrenata passione per il Cinema, ora sono Theatrical Operations and Special Projects Supervisor presso The Walt Disney Company Italia.
Amo lavorare in Team con grinta e determinazione per organizzare eventi speciali, proiezioni, anteprime, festival cinematografici ed eventi corporate.

Affronto ogni nuovo progetto con entusiasmo e con due obiettivi: organizzare eventi memorabili e far sentire ogni partecipante una persona unica e speciale.

Do il mio meglio quando sono libera di gestire programmi articolati e stimolanti, che uniscano competenze diverse e che permettano lo scambio di esperienze fra persone di provenienza e di cultura diversa.

L’ area del mio lavoro in cui concretizzo di più il mio amore per il Cinema? La Produzione! Che sia un contenuto speciale, una clip divertente, un documentario o un sizzle, quando si tratta di produrre, la mia creatività si scatena!

 

Segui il mio videocorso gratuito su LinkedIn

Per ricevere gratuitamente le videolezioni via email fai clic qui oppure premi sul banner qui sotto:

Cercare lavoro: come sfruttare le leggi del marketing

Il marketing, come qualsiasi disciplina umana, ha delle regole. Discutibili, “deperibili”, forzate se volete, ma delle regole ci sono. Prendete per esempio le 22 immutabili leggi del marketing di Al Ries e Jack Trout: è vero che si tratta di un testo con le rughe, ma alcune verità possono essere riconosciute ancora come attuali. La mia sfida, qui, è quella di applicare alcune di quelle leggi (cinque o sei su 22) alla ricerca del lavoro, come se il prodotto o servizio da piazzare sul mercato fossi tu.

  1. La legge della leadership e della categoria

Questa legge è per molti spiazzante: è preferibile essere i primi e non i migliori. Eppure molti continuano a puntare sulla qualità del prodotto, sul confronto con i competitor, sul benchmarking e non sul posizionamento – parola per me chiave. Per dire: chi si ricorda il nome del secondo aviatore che ha fatto la traversata dell’Atlantico?

Come tradurre questo in campo lavorativo? Se non puoi essere il primo di una categoria, inventatene una nuova in cui diventarlo. Nel 1934 Joseph Lamberth pubblicò il primo libro sul cake design e creò un metodo, che si chiama “metodo Lamberth”.

  1. La legge della focalizzazione 

L’essenza del marketing è restringere la focalizzazione: non puoi rappresentare una cosa specifica se insegui tutto. C’è un vecchio modo di dire inglese che recita: “Jack of all trades and master of none”, che si può tradurre con “esperto di tutto, maestro di niente”. Sempre più persone invece perdono la focalizzazione e disperdono le energie su più fronti, tanto che la studiosa canadese Emilie Wapnick ha coniato il termine “multipotenziale” proprio per indicare una persona con molti interessi e occupazioni creative. È una persona che posta di fronte alla domanda: “Che cosa vuoi fare da grande?”, prova disagio. È una persona che si appassiona per un periodo a una determinata attività, illudendosi per un momento di aver trovato la propria vocazione, fin quando la parabola si consuma e la noia sopraggiunge. Puoi guardare la conferenza Ted di Emilie e questo indirizzo: bit.ly/Wapnick.

  1. Legge del sacrificio

Questa legge si lega alla precedente: bisogna rinunciare a qualcosa per ottenere qualcosa. Il mondo del lavoro, così come quello degli affari, è popolato da grandi generalisti altamente diversificati e piccoli specialisti estremamente focalizzati. Il generalista di solito è debole, la nicchia spesso vince. Parliamo anche di mercato: chi l’ha detto che devi risultare interessante per tutti? Coca-cola stravinceva e allora Pepsi si è concentrata sui giovani: si parlava infatti di Pepsi generation.

  1. La legge della sincerità

Se ammetti una qualità negativa, il cliente potenziale ne riconoscerà una positiva. Ammettere un problema va contro la natura umana e aziendale. Uno dei modi più efficaci per entrare nella testa del cliente potenziale è invece ammettere un fatto negativo e trasformarlo in qualcosa di positivo. Avis, per esempio, era la numero due nel mercato del noleggio auto. L’ha ammesso e ha trasformato questo handicap in un punto di forza: è vero, siamo in numeri due ma proprio per questo ci metteremo ancora più impegno.

 

  1. La legge dell’imprevedibilità.

Non è possibile prevedere il futuro, ma occorre farsi un’idea di quali saranno le tendenze del mercato, in modo da trarre profitto dal cambiamento. Altro errore è pensare che il futuro sarà una replica del presente. La soluzione per gestire l’imprevedibilità? La flessibilità e la formazione continua: lavori che oggi paiono ormai consolidata, come il social media manager e il brand reputation manager, dieci anni fa non esistevano e, chissà, fra dieci anni non esisteranno più.

EXTRA La legge del fallimento. Il fallimento va messo in conto, va accettato. E, all’americana, va visto come un’opportunità.

Puoi acquistare il libro di Al Ries e Jack Trout qui: