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5 cose da NON fare su LinkedIn (secondo Daniel Disney)

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OK, finalmente ti sei deciso a sistemare il tuo profilo LinkedIn e non usarlo come una sorta di CV online. Hai tolto quella foto con gli occhiali da sole mentre sorseggi un Negroni sostituendola con una più sobria immagine in tenuta da lavoro; hai spiegato bene chi sei e cosa fai dal punto di vista lavorativo; hai compilato tutte le sezioni inserendo informazioni rilevanti. Eppure, niente, i risultati non arrivano: non trovi nuove lead e prospect e il business non decolla. Cosa succede?

Di seguito ti racconterò alcuni dei principali errori che puoi fare su LinkedIn, dandoti qualche spunto per potenziare la tua attività e migliorare le tue qualità di social seller. Tieni però conto di una cosa: la pazienza è tutto. Coltivare relazioni professionali e ottenere risultati concreti (inteso come nuovi clienti o collaborazioni) richiede tempo. E, soprattutto, devi essere proattivo: non è che basta pubblicare qualche contenuto stimolante e ben realizzato per vedersi piovere contratti o proposte di collaborazione.

Le opportunità mancate

Un aspetto che puoi non aver considerato è che magari le opportunità sono arrivate, ma non te ne sei accorto, o non sei riuscito a coglierle. Un’opportunità non è una telefonata o e-mail di qualche utente che ha letto un tuo post e ha deciso di contattarti per acquistare i tuoi servizi. O meglio, è a tutti gli effetti un’opportunità, ma è raro che succeda questo, a meno che tu sia un guru ultra-riconosciuto nel tuo settore di riferimento, e in quel caso probabilmente avrai così tanti clienti da faticare a stare dietro alle offerte. Nella maggior parte dei casi, tutto nasce in maniera più semplice. Un po’ come quando conosci qualcuno nel tuo bar preferito, e fra una chiacchiera e l’altra – dopo mesi a discutere del più e del meno – salta fuori che lui fa l’avvocato e tu hai bisogno dei suoi servizi.
Ecco, anche sui social, in particolare su LinkedIn, funziona così: ci si “annusa” e solo col tempo da uno scambio di opinioni nasce una proficua collaborazione. Daniel Disney (che non ha niente a che fare con Topolino e Pippo, ma è un esperto di social selling molto attivo sulla piattaforma, nonché autore di parecchi libri sul tema), indica cinque tipici errori effettuati dagli utenti della piattaforma.

Non controllare le visite al tuo profilo

A meno che hai deciso di navigare in maniera privata sulla piattaforma (spuntando l’apposita voce nelle impostazioni della privacy, cosa che ti sconsiglio di fare, se non in rarissimi casi in cui vuoi rimanere anonimo per scelta), verrai informato su chi ha visitato il tuo profilo negli ultimi giorni. Se decidi di abbonarti alla versione Premium del social, questa lista sarà sbloccata del tutto.
Se qualcuno ti ha cercato, ci sarà un motivo e, al contrario di quanto accade su Instagram o altre piattaforme, il motivo dell’interesse non sarà quello di tentare un approccio galante (si spera).

Verifica chi è, cosa fa di lavoro, in quale azienda lavora e ragiona sopra queste informazioni: può essere una potenziale lead? O anche solo una persona che può darti qualche spunto interessante? Se sì, prova a contattarlo direttamente, ovviamente senza partire vendendogli un servizio, ma cercando di instaurare una conversazione stimolante e interessante. Cosa che ci porta direttamente al secondo errore.

Iniziare male le conversazioni

Contattare una persona che non conosci direttamente è un po’ come una chiamata a freddo. Hai presente quando in azienda ti arriva una chiamata di un agente che vende prodotti o servizi di cui non hai mai sentito parlare, o che vuole incontrarti a quello scopo? Ecco, una roba del genere. Molto meno invasiva e decisamente più efficace, ma il concetto è quello: stai ricevendo un messaggio da uno sconosciuto, che potrebbe pure offrirti l’opportunità della tua vita, ma la tua prima sensazione sarà quella di uno scocciatore, un po’ come i venditori di case che suonano al campanello chiedendoti se vuoi vendere la tua casa (cosa a mio avviso molto poco intelligente, dato è un po’ come sparare a occhi chiusi e sperare di colpire il bersaglio).

Cura bene il tuo primo messaggio (che probabilmente verrà letto), cercando di dare uno stimolo per proseguire la conversazione. Vuoi invitare qualcuno a un webinar perché pensi che possa essere interessato? Non sbattergli in faccia un semplice link all’evento: spiegagli brevemente perché stai contattando proprio lui e perché credi che possa essere interessato. Qualcosa del tipo

“Ciao, ho visto che sei interessato all’argomento XXX e sto organizzando un webinar sul tema: credo che potrebbe interessarti perché approfondiremo la questione insieme agli esperti Tizio, Caio e Sempronio. Ti piacerebbe partecipare?”.

Se ti risponde di sì, hai conquistato una lead. Se risponde che non è interessato/non ha tempo o altro, hai comunque avviato una conversazione: ringrazialo in ogni caso e chiedigli può essere interessato in futuro ad altri eventi, o se vuole entrare nella tua cerchia di contatti.

Non hai un brand personale

Puoi essere il miglior comunicatore al mondo ma se non hai una tua audience, è un po’ come gettare sassi in uno stagno. Affinché i tuoi contenuti raggiungano un numero adeguato di persone e, soprattutto, le coinvolgano. Avere un’audience però non significa aggiungere alla tua cerchia chiunque ti capita a tiro: devi fare una selezione, crearti una rete di persone che abbiano senso per il tuo business, che possano essere interessate a quelli che hai da dire. Non devono essere necessariamente clienti o potenziali tali, ma l’obiettivo è quello di discutere di temi comuni. Del resto, non manderesti l’invito per una degustazione di vino a un gruppo di astemi o ex alcolisti, giusto?

Pubblicare contenuti di bassa qualità

A volte il problema non è quello dell’audience poco reattiva o poco mirata, ma quello dei contenuti stessi. Se per chi lavora nella comunicazione è relativamente facile (ma mai banale) realizzare post e articoli accattivanti, in grado di catturare l’attenzione, negli altri casi è molto più difficile. Ho avuto a che fare con ingegneri bravissimi nel loro campo, che hanno scritto eccellenti white paper, ma sono incapaci di farsi comprendere da un pubblico più generico. Così come ho incontrato grandi esperti di finanza ed economia, persona alle quali affiderei senza problemi i miei risparmi, ma che quando scrivono, o fanno conferenze, sono troppo tecnici, e risultano comprensibili solo agli esperti del settore.

Non è colpa loro, naturalmente: l’arte della comunicazione, sia essa scritta o parlata, va coltivata col tempo e se passi le giornate a gestire temi ultratecnici insieme a persone che hanno le tue stesse competenze, può essere molto difficile riuscire a comunicare con un pubblico privo delle basi. Migliorare però è possibile e io propongo un metodo di mia invenzione, O.P.E.R.A, che può semplificarti la produzione.

O.P.E.R.A è l’acronimo che sta per OBIETTIVO, PAIN, EMOZIONALE, RAZIONALE, AZIONE. Ecco come funziona:

OBIETTIVO: prima della costruzione di un contenuto devi partire dal perché. Perché stai creando questo contenuto? Che cosa vuoi ottenere? Chi vuoi coinvolgere, quale target? Sono tutte domande indispensabili, senza le quali si rischia di fare cilecca.

PAIN: dopo aver individuato l’obiettivo della comunicazione e, quindi, il target di riferimento, devi individuare il problema che toglie il sonno a chi legge il contenuto, o al limite il suo bisogno impellente.

EMOZIONALE: prima ancora di conquistare il lettore con offerte irresistibili, devi attirarne l’attenzione. In due modi: con un ottimo contenuto visuale per ottenere lo “stop the scroll” (fermare il frenetico scorrere dei contenuti in una bacheca virtuale, come fa la scimmia che vedi sopra) e con un altrettanto buon copy, per dimostrargli che farebbe bene a leggere oltre. Immagine e testo non devono essere ridondanti: devono dire cose diverse, complementari, per completare il messaggio.

RAZIONALE: ogni volta che realizzi una strategia di marketing, stai facendo una promessa a qualcuno. Nel caso specifico prometti di risolvere il suo problema, quindi devi evidenziare il beneficio del bene o servizio proposto. Il lettore si chiede “What’s in it for me?”. Bene, digli chiaramente che cosa ci guadagna.

AZIONE: la call to action finale, come nel modello A.I.D.A., è il naturale approdo di tutta la comunicazione; è come il gol nel calcio, dopo un’azione manovrata e un bell’assist. Non sempre è scontato: ti è mai capitato di andare a un evento bellissimo ma di uscirne con la domanda “e quindi?”. L’utente vuole essere guidato.

Rete di contatti limitata

Come tutti i social network, anche LinkedIn funziona sui grandi numeri e per potenziare le tue opportunità di fare networking e trovare dei potenziali clienti, è necessario avere una rete di contatti il più estesa possibile. Non esiste un numero specifico, ma di certo 50 contatti non sono sufficienti per fare ai tuoi contenuti la visibilità che meritano. Non ti resta quindi che armarti di pazienza ed estendere la tua rete di contatti, ma evita di aggiungere persone a caso. E non avere fretta. Prenditi l’abitudine di chiedere il collegamento con tutte le persone con cui hai a che fare professionalmente e, se inizia a intervenire in gruppi di discussione o a commentare post, non avere timore e chiedi pure il contatto con le persone con le quali stai interagendo. Tieni poi sempre d’occhio le persone che visitano il tuo profilo: per farlo, basta cliccare dalla homepage di LinkedIn sulla voce “chi ha visitato il mio profilo”. Vedi di chi si tratta, come ti ha raggiunto e, se in target, manda pure una richiesta di collegamento.

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Come usare il modello A.I.D.A. nella comunicazione social?

Mentre approfondivo gli studi sulla comunicazione digitale, spaziando dal copywriting alla comunicazione pubblicitaria, scoprii un modello molto interessante. Ancora fermo alle 4 o 5 P di Kotler, mi imbattei nel modello A.I.D.A. di St. Elmo Lewis. Il nome del modello, Aida, non c’entra nulla né con Giuseppe Verdi né con Rino Gaetano!

È un acronimo che sta per:

  • ATTENZIONE
  • INTERESSE
  • DESIDERIO
  • AZIONE

A che cosa serve questo modello? Ne analizzo un punto alla volta.

Attenzione (Attention o Awareness): una pubblicità deve catturare l’attenzione del consumatore. Ogni giorno una persona è mediamente esposta a un numero di annunci che varia da qualche decina a qualche migliaio. Solo una piccola parte di questi arriva a destinazione, motivo per cui il messaggio deve essere eccezionale.

Interesse (Interest): una pubblicità deve accendere l’interesse del consumatore. Dopo aver catturato l’attenzione, occorre riuscire a farsi leggere davvero. Si dice, in particolare, che il messaggio deve catturare l’attenzione selettiva.

Desiderio (Desire): una pubblicità deve innescare il processo di creazione del desiderio da parte del consumatore. Quando il consumatore si identifica nella situazione pubblicitaria proposta, si verifica una sorta di proiezione del suo io, della sua personalità, nel messaggio stesso.

Azione (Action): una pubblicità deve condurre all’azione, che si concretizza nell’acquisto del servizio o del prodotto.

Cominciai a ragionare su come usare il modello A.I.D.A. nella costruzione della comunicazione digitale e, in particolare, per la comunicazione sui social media, adattandolo così:

ATTENZIONE: generare attenzione con un’immagine di impatto, che spingesse l’utente a fermare lo scroll.

INTERESSE: Porre una domanda o citare una questione di vero interesse per il lettore. Bando alla comunicazione autoreferenziale. Occorreva puntare su quel che un lettore ha come argomento preferito: se stesso. Iniziai quindi a ragionare su bisogni e problemi.

DESIDERIO: Intesi questa fase come l’indicazione di un beneficio per chi legge. Avrei quindi risposto al classico “What’s in it for me” (abbreviato WIIFM)? Alessandra Farabegoli ha sistematizzato la possibile risposta a questa domanda con un serie di benefici per chi legge un contenuto online:

  • Mi fai ridere
  • Mi commuovi
  • Mi fai sentire una persona migliore
  • Mi fai sognare di evadere dal quotidiano
  • Mi dai la scusa per perdonare un mio difetto / vizio / debolezza
  • Mi fai guadagnare / risparmiare (ma davvero)
  • Mi fai giocare / misurare / competere con gli altri
  • Mi spieghi come risolvere un problema pratico (ma deve essere il mio e devo sentirne forte la pressione)
  • Mi insegni qualcosa di non scontato e mi fai fare bella figura con altri
  • Mi fai risparmiare tempo offrendomi trucchi/metodi/soluzioni
  • Mi fai scoprire qualcosa di nuovo, mi fai venire nuove idee (di stile, cucina, viaggi, design)
  • Mi fai sentire “parte di” qualcosa (una comunità, una causa)

Ecco tre esempi di come questo viene declinato sui social.

RIDERE. Ceres fa real time marketing (commenta il fatto del momento) con vena ironica:

GIOCO. Qui Deliveroo chiede di giocare con la scelta della pizza:

PARTE DI. Ford chiede di inviare le foto della propria vettura allo scopo di rinsaldare il senso di appartenenza e fedeltà al brand:

AZIONE: Intesi una call to action finale, la richiesta di fare qualcosa, sempre declinato all’imperativo. Per esempio compra, scopri, iscriviti, contattami e così via.

Ricapitolando: dopo aver catturato l’attenzione e l’interesse del lettore, sia visivamente sia parlando di un suo problema, avrei generato il desiderio di compiere un’azione promettendo un beneficio.

In tal senso, questo post pubblicitario di Hootsuite poteva essere sezionato così:

Attenzione: l’immagine della ragazza che usa un PC.

Interesse: risparmiare tempo.

Desiderio: il beneficio di poter gestire tutti i canali da un’unica piattaforma.

Azione: Iscriversi al servizio / aggregarsi a una comunità di utenti.

Esiste una variante del modello AIDA, AIDCA: quella “C” in più sta per “convincimento”, ovvero per l’uso di testimonial, statistiche, demo o garanzie al fine di convincere il cliente prima dell’azione finale.

Un’evoluzione del modello AIDA, se vogliamo ancora più completo e adatto ai nostri mercati, è quello proposto da Christian Betancur[10]: si tratta dell’impronunciabile “BAIFDASV”.

Questo modello parte dall’individuazione di un Bisogno (B), successivamente mette le fasi di Attenzione (A) e Interesse (I) per poi focalizzarsi sull’obiettivo di conquistare la Fiducia (F) del consumatore,  così da arrivare a far nascere il Desiderio (D) del prodotto/servizio che sfocerà infine nell’Acquisto (A). Contrariamente al metodo A.I.D.A., però, Betancur non si ferma qui e analizza la fase post-vendita: per questo inserisce anche la componente Soddisfazione (S) del cliente e la Valutazione (V) del prodotto/servizio per giungere alla fidelizzazione. Alla fine, l’obiettivo non è vendere una volta sola.

Il libro “Stop the scroll”

Quello che hai appena letto è un piccolo assaggio del libro “Stop the scroll” che illustra il mio metodo O.P.E.R.A.

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