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Musica liquida: intervista ad Andrea Lawandel

Per approfondire il discorso sulla musica liquida (oggetto di un libro di prossima uscita che ho scritto con il collega Renzo Zonin), ho fatto una chiacchierata con Andrea Lawandel, giornalista freelance, esperto di tecnologia, musica e radio, autore del blog Radiopassioni.

Ciao Andrea, che cosa ne pensi del fenomeno Spotify (e compagnia bella)?

Non sono domande facili perché si inseriscono nel complicato contesto della musica liquida scatenato dal “fenomeno” iPod+iTunes. Diciamo che Spotify, ma ancor prima Deezer, Pandora negli Stati Uniti, Rdio, Rara e così via, rappresentano una inevitabile evoluzione del modello download del singolo brano o dell’album, inaugurato da Apple e di fatto portato all’estremo successo solo da Apple. Se vogliamo è una evoluzione che, oltre a essere dettata dalla tecnologia, ha anche motivazioni più commerciali. Rispetto al download, il modello streaming dà ai proprietari dei diritti musicali la sensazione di poter controllare meglio il contenuto che rimane comunque liquido. Il download non elimina del tutto il problema della copia pirata, della condivisione non autorizzata e così via, e d’altro canto lo streaming consente di implementare modelli economici più convenienti che insieme alla praticità della cosa servono appunto a combattere la pirateria. Poi naturalmente ci sono fattori tecnici come li generale aumento di banda fissa e copertura wireless, il perfezionarsi delle codifiche audio, l’affermarsi generalizzato delle architetture cloud e dello storage centralizzato.
La tendenza sembra inarrestabile, basta solo vedere come i servizi di cloudizzazione delle librerie musicali personali, residenti sui dischi del PC, offerti da Apple iCloud, Google Music e molto più recentemente da Deezer, tutti rivolti ad appassionati della musica che amano molto anche l’aspetto della curatela delle proprie playlist. A queste persone viene offerto di trasferire in cloud queste librerie, in modo da sfruttare un po’ tutto, la capacità di selezionare da soli la musica di proprio gusto, la ricchezza delle funzionalità di music discovery integrate in tutti i servizi streaming, e la praticità di quest’ultimo.

E che cosa ne dici della sostenibilità economica del modello “all you can listen”?

Sulla sostenibilità mi sembra chiaro che forse non ci sarà posto per la pletora di piattaforme oggi in funzione e sul lungo termine pesa anche l’incertezza che riguarda l’industria musicale nell’insieme. La musica liquida ha avuto un innegabile impatto sulle cifre d’affari delle case discografiche, dell’industria musicale basata sui vecchi modelli diritti+dischi. Per ora le piattaforme in streaming sono dei reintermediatori, rappresentano un anello in più nella catena che legava i produttori di musica, attraverso i loro editori, ai consumatori. Probabilmente le dinamiche tra piattaforme streaming, case discografiche e musicisti cambieranno molto, rispetto a un’epoca in cui la musica veniva prodotta, diffusa sostanzialmente solo dalla radio (poi da MTV), e acquistata su vinile/CD o ascoltata live ai concerti. Si possono immaginare molti più ruoli, canali di interazione, generatori/scambiatori di revenues, soprattutto le piattaforme streaming vincenti assumeranno sempre di più un ruolo di intermediazione esclusiva tra musicisti e ascoltatori, togliendo ulteriore “nutrimento” agli editori musicali tradizionali. Al tempo stesso i musicisti si muovono in modo diverso, più diretto, per raggiungere i loro fan non solo in streaming ma anche fisicamente, ai concerti.
Alla fine secondo me i valori economici in gioco sono probabilmente destinati a crescere, perché ci sarà più pubblico, che forse pagherà di meno rispetto al modello dell’acquisto del disco fisico, in termini di prezzo unitario per il consumo di musica, ma ci saranno molte più “unit” vendute, e non saranno soltanto “brani ascoltati in streaming” ma molte altre cose che oggi vengono ancora percepite come secondarie al CD.

Domanda da indovino: secondo te è questo il modo in cui ascolteremo la musica nel futuro, anche prossimo, oppure difficilmente rinunceremo all’idea di avere un supporto e soprattutto alla proprietà dei brani?

Se si deve trarre una lezione da quello che abbiamo visto finora, anche in altri ambiti, risponderei senza esitazione che sì, anche in futuro ascolteremo in streaming. Tutto è molto legato alla pervasività delle connessioni landline o wireless, se Internet è ovunque non si vede perché non dovrei accendere Spotify invece di mettere su un CD. Del resto abbiamo anche smesso o quasi di inviare fax o di usare il telefono fisso. Come dicevo prima, il numero di persone che amano poter dire di “possedere” la propria musica è ancora molto elevato e negli ultimi anni c’è addirittura un ritorno di appassionati di dischi in vinile (con effetti comici perché molto spesso la musica viene da master digitali mal convertiti in analogico e la presunta qualità del microsolco va a farsi benedire, restano solo i fruscii). Ci saranno per forza delle nicchie di “giapponesi nella giungla del policarbonato o del vinile”, ma i consumi in streaming continuano ad aumentare come penetrazione e anche la consapevolezza degli utenti cresce, Spotify e compagnia bella hanno il loro miglior successo nel consumo via smartphone.

L’idea che siano i servizi online a scovare la musica che potrebbe piacerci al posto nostro, non ci toglie un po’ il gusto della ricerca e, in alcuni casi, della scoperta casuale, tipo “serendipità”?

Capisco molto bene il senso della domanda e in parte sono d’accordo. Per citare ancora una volta Deezer la “discovery” secondo loro è la chiave di tutto perché la scoperta di nuovi generi e artisti giustifica l’interesse a creare generi e artisti sempre nuovi, alimenta il motore della creatività. Bisogna sempre distinguere quelle che sono funzioni di recommendation puramente basate su algoritmi e discovery guidata da redazioni di esperti e curatori (o un misto tra le due cose, stile Deezer appunto). L’algoritmo puro è una strategia scelta da servizi italiani recenti come Mentor.fm o Smarfle. Servizi come Serendip fanno addirittura leva sul concetto di serendipità per attirare nuovi adepti su piattaforme di “social discovery”. Anche qui le lezioni del passato forse servono: storicamente i servizi che pretendevano di dare tutto il controllo a singoli consumatori, immaginando che tutti avrebbero avuto voglia di esplorare, cercare, inseguire, non hanno avuto un grande successo. Siamo tendenzialmente pigri e se proprio non siamo appassionati e non abbiamo una mentalità da collezionista, forse un buon suggerimento che ci arriva dall’esterno finisce per avere un risultato più gratificante rispetto a un “questo l’ho trovato io” che molti si stufano presto di praticare. Tutto dipende naturalmente dall’efficacia del modello di recommendation adottato.
Io tendenzialmente amo molto l’approccio del cured content, dell’esperto che mi guida e mi dà consigli, ma appartengo a una minoranza di consumatori impegnati (soprattutto di certi generi musicali). In campi musicali recenti dove sono molto, molto ignorante, mi trovo spesso ad ascoltare in streaming brani di gente di cui non sospettavo l’esistenza ma che mi coinvolgono. Per mia natura preferisco quando il consiglio arriva da una stazione radio intelligente, ma è sempre più facile che l’ascolto avvenga su Spotify o Rdio e compagnia bella.

Ultima cosa: secondo te esiste davvero l’esigenza di usare i servizi di cloud music, di avere tutta la propria musica sempre a disposizione o è solo una “moda” passeggera?

È un po’ quello che si è detto prima: il cloud storage in generale sta prendendo molto piede, forse inizialmente più per rendere più agevole attività lavorative che ormai coinvolgono l’uso di più dispositivi e più sedi di lavoro. Negli ultimi anni abbiamo imparato ad avere molta più familiarità con il concetto di “archivio” personale, quando abbiamo scoperto che sul PC potevamo tenere di tutto. iTunes ha definitivamente imposto questo concetto. Tanto è vero che prima della grande affermazione degli smartphone c’è stato l’avvento di una tipologia di prodotto, il NAS domestico, che veniva incontro proprio all’esigenza di chi voleva avere il pieno controllo della sua multimedia-teca. Poi però dal PC siamo passati alla metafora dello smartphone e sempre di più il concetto di archivio perde fisicità. Lo smartphone avrà per definizione una memoria locale non infinita e contemporaneamente sarà sempre più un device isolato rispetto ad accessori come dischi esterni e NAS. Il NAS naturale (perdonate il bisticcio) dello smartphone è il cloud storage. Mi sentirei quindi di dire che se il cloud storage dovesse risultare come una moda passeggera sarà perché lo smartphone stesso sarà una moda passeggera. Anche qui, la tendenza storica ci insegna che le varie tipologie di memorie fisiche tendono ad avere una vita finita, cose come il floppy disc, che è addirittura sparito per evidente obsolescenza rispetto alle capacità necessarie, e persino i CD-ROM e i DVD spariscono dal radar mentale di molti utenti, anche di PC desktop. Credo che la praticità del cloud storage sarà sempre più un dato di fatto, nei vincoli imposti dalla disponibilità di connettività (ancora oggi basta andare in vacanza al mare e la musica te la devi portare sulla chiavetta o nella memoria del cellulare). Un altro fattore che oggi viene un po’ trascurato è l’evoluzione delle memorie fisiche, flash o ottiche che siano. Quando le schedine del formato microSD o simile avranno un Terabyte di capacità e costeranno cinque dollari, è anche possibile che uno si faccia un po’ di copie che saranno sempre accessibili con i vari cellulari che ha in tasca, con l’idea (magari illusoria) che in questo modo potrà sempre avere a disposizione tutto. Ma il cloud storage manterrà i suoi vantaggi “gestionali”, con aspetti come la sicurezza e l’availability demandati ad altri: tutto alla fine sarà legato alla capillarità delle connessioni.

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