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L’algoritmo di Instagram spinge gli utenti a spogliarsi?

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Gli algoritmi, spesso, sono programmati per fare cose a noi poco comprensibili. È il caso di una piattaforma come Instagram che sembra prediligere le foto di uomini e donne in costume da bagno o, comunque, poco vestiti (come evidenziato da questo articolo di Open). Le preferenze dell’algoritmo di proprietà di Meta, purtroppo, possono influenzare non solo il comportamento delle principali star della piattaforma (influencer e creatori di contenuti) ma anche il destino di aziende che si affidano a Instagram per vendere i propri prodotti.

È il caso di Marco (nome fittizio), un piccolo imprenditore che vive in una grossa città del Vecchio Continente e promuove i prodotti creati dalla sua azienda attraverso i canali social. Di che cosa si occupa la piccola impresa di Marco? La sua azienda produce delle barrette energetiche studiate appositamente per gli sportivi. Il reparto marketing di Marco utilizza le piattaforme social per attirare nuove clienti e per fidelizzare quelli più affezionati. In Europa i social network di proprietà di Mark Zuckerberg la fanno da padrone e una presenza su questi canali è fondamentale per il successo della propria azienda. Instagram, in particolare, punta tutto su foto e video. Marco e i suoi responsabili del reparto marketing hanno scoperto che “solo” alcuni dei numerosi post pubblicati hanno raggiunto gli oltre 100.000 follower della propria azienda. In particolare, è stato notato che le foto e i video che hanno funzionato meglio sono quelle che avevano come soggetto alcune modelle in bikini o in attillate tute sportive. Giovanna, autrice di una serie libri di successo, ha dichiarato che le foto più apprezzate dai suoi fan sono quelle che la ritraggono in costume di bagno o con addosso qualche sexy minigonna.

Purtroppo, l’algoritmo di Instagram sembra essere attratto da uomini e donne poco vestiti: per chi si affida alla piattaforma di Meta per lanciare le proprie campagne marketing è un problema non da poco. E, soprattutto, proporre foto e video di questo tipo per un’azienda potrebbe essere qualcosa che va contro i propri valori.

Come funziona l’algoritmo di Instagram?

Per capire come funziona l’algoritmo di Instagram e come vengano effettuate certe scelte, un organismo come l’European Data Journalism Network e un sito come AlgorithmWatch hanno condotto un interessante esperimento. Sono stati selezionati 26 volontari a cui è stato chiesto di installare un’estensione per il browser e di seguire un certo numero di influencer/creatori di contenuti. Nello specifico, sono stati selezionati 37 personaggi (di cui 14 uomini) provenienti da 12 diversi paesi che utilizzano Instagram per pubblicizzare marchi o acquisire nuovi clienti per le loro attività, principalmente nei settori food, viaggi, fitness, moda e bellezza.

L’estensione aggiunta al browser ha permesso di controllare automaticamente l’home page di Instagram a intervalli regolari, monitorando i post visualizzati in cima ai newsfeed. In questo modo i ricercatori hanno potuto avere una panoramica dettagliata di quello che l’algoritmo considera rilevante per ogni utente che ha partecipato all’esperimento. Nell’arco di tre mesi sono stati analizzati qualcosa come 1.737 post (contenenti 2.400 foto):

Il 21% del materiale pubblicato conteneva immagini di donne in bikini o in biancheria intima o di uomini a torso nudo.

In particolare, nei feed dei partecipanti all’esperimento i post con immagini di questo tipo arrivavano al 30% (alcuni contenuti sono stati mostrati più di una volta). In particolare, i post che contenevano immagini di donne con indumenti intimi o in bikini avevano il 54% di probabilità in più di apparire nel feed delle notizie degli utenti partecipanti all’esperimento. I post contenenti immagini di uomini a torso nudo, invece, avevano il 28% di probabilità in più di essere mostrati; quelli con cibo o paesaggi avevano circa il 60% in meno di probabilità di essere visualizzati nel feed delle notizie.

A Instagram piacciono i costumi da bagno

La “propensione” di Instagram verso i corpi umani poco vestiti potrebbe non essere applicabile a ogni contesto e a ogni utente presente sulla piattaforma: la personalizzazione e altri fattori possono arginare/amplificare questo fenomeno. Interpellata sulla questione, Meta ha sostenuto che la ricerca condotta fosse viziata in partenza, ribadendo che la classificazione sulle sue piattaforme funziona in base ai contenuti per i quali un utente mostra interesse, e non per la presenza di qualche sexy costume da bagno. Senza avere accesso ai dati ufficiali di Meta è difficile trarre delle conclusioni anche se c’è la forte convinzione tra i ricercatori che i risultati ottenuti siano abbastanza “rappresentativi” del funzionamento generale di Instagram.

In ogni caso, grazie ai whistleblower, sappiamo che Meta è consapevole dei danni che sta facendo sui teenager:

La metrica del coinvolgimento

Gli ingegneri di Meta hanno più volte affermato (le informazioni sono state recuperate attraverso i brevetti presentati) che l’algoritmo di Instagram analizza ogni immagine pubblicata sulla piattaforma assegnandogli una “metrica per misurare il coinvolgimento” che tiene conto dei comportamenti degli utenti. Per esempio, se a una persona piace un brand particolare e una foto mostra un prodotto di quello stesso marchio, la metrica di coinvolgimento aumenta. Altri parametri come il sesso, la provenienza e lo stato di vestizione delle persone in una foto possono influenzare il calcolo di questo parametro.

Sulla piattaforma, però, viene specificato che l’elenco dei contenuti proposto viene organizzato in base agli interessi degli utenti. Nel brevetto registrato da Facebook (ora Meta) nel 2015 veniva spiegato come l’algoritmo fosse in grado di classificare i contenuti in base a quello che potesse interessare agli utenti presenti sulla piattaforma.

Le immagini pubblicate possono essere visualizzate nei newsfeed di uno o più utenti in base al loro storico (i comportamenti tenuti finora) ma anche prestando attenzione alle preferenze stesse di Instagram, che può decidere arbitrariamente quello che può essere coinvolgente per i frequentatori della sua piattaforma. Facebook, per esempio, analizza automaticamente le immagini con un software specifico prima che il suo algoritmo decida quali mostrare nel newsfeed di un utente. L’intelligenza artificiale è stata addestrata attraverso migliaia di immagini che sono state analizzate manualmente: questa modalità tende a influenzare il modo in cui Instagram assegna le priorità nei feed di notizie.

Tutta colpa dell’IA?

Questo sistema, purtroppo, non è esente da problemi come sanno benissimo programmatori e ingegneri informatici: si possono verificare delle correlazioni spurie o fallaci. Per esempio, un algoritmo allenato a riconoscere lupi e cani attraverso una serie di immagini specifiche, non sempre riuscirà a identificare questi animali con la precisione di un essere umano. È possibile che consideri un lupo qualsiasi altro animale presente su uno sfondo con neve.

I dati che alimentano gli algoritmi nella maggior parte dei casi non sono di grande qualità (principalmente per una questione economica) e spesso vengono tralasciati dettagli e variabili che potrebbero fare la differenza nei sistemi automatizzati. Le conseguenze, alle volte, possono essere spiacevoli: lo scorso anno un artista brasiliano ha visto bloccati alcuni post su Instagram perché conteneva dei contenuti ritenuti violenti; peccato che le immagini raffigurassero il sette volte campione del mondo della F1 Lewis Hamilton e un ragazzino. Entrambi avevano la pelle scura. Un’insegnante di yoga di asiatica-americana è stata protagonista di un altro episodio particolare: una foto che la ritraeva nella posizione della gru laterale è stata bloccata perché secondo l’algoritmo di Instagram era volgare. Le linee guida di Instagram affermano che la nudità “non è consentita” ma la piattaforma sembra favorire quei post che mostrano centimetri e centimetri di pelle umana. La differenza tra quello che è lecito e quello che non lo è davvero sottile: il rischio di essere cacciati dalla piattaforma è sempre dietro l’angolo.

Giovanna, Marco e molti altri imprenditori che si affidano a Instagram per le loro campagne marketing avevano il terrore di parlare con i media. La maggior parte dei creatori di contenuti professionisti teme ritorsioni da parte di Meta sotto forma di cancellazione dell’account o divieti nascosti (per esempio i post mostrati a pochissimi follower o a nessuno!): una vera e propria condanna a morte per loro attività.

L’introduzione in Europa del GDPR sulla protezione dei dati nel 2018 e la promulgazione del Regolamento europeo Platform to Business (P2B) nel 2020 hanno obbligato i servizi di intermediazione online a rendere noti i principali parametri che determinano il ranking algoritmico. Purtroppo, nessuna autorità, a livello europeo o all’interno degli stati membri, ha il potere o gli strumenti necessari per controllare quello che fanno Meta, Google, Microsoft, Amazon e compagnia bella. Sebbene la discriminazione basata sul genere sia vietata dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, non esistono attualmente vie legali che permettano a un utente di avviare un procedimento contro la piattaforma di Meta.

Alcune organizzazioni/sindacati combattono per i diritti dei creatori indipendenti sui social media: sono già partite una serie di azioni collettive contro Google per chiedere una maggiore equità e trasparenza sulle politiche attuate su YouTube. Instagram, per ora, non è stato toccato: gli imprenditori e le imprenditrici sono costretti a rispettare le regole stabilite dagli ingegneri di Facebook se vogliono avere la possibilità di guadagnarsi da vivere…

LinkedIn e privacy: tutto quello che devi sapere sulle opzioni di visibilità

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LinkedIn offre numerose opzioni per modificare la privacy e la visibilità del tuo profilo, così da consentire a ogni utente di personalizzare la propria esperienza. Ci sono per esempio persone che preferiscono non dare l’e-mail a tutti, ma solo alle persone della propria rete, così come altre che preferiscono far apparire solamente l’iniziale del cognome agli utenti al di fuori delle proprie cerchie. I più attenti alla privacy preferiranno non far vedere agli altri quando sono connessi al social. Alcuni vorranno informare il proprio network di ogni modifica apportata, incluso il cambio della foto del profilo, altri al contrario desiderano evitare di bombardare i contatti di notifiche. Le opzioni sono davvero tantissime e permettono a tutti di trovare il giusto equilibrio fra la massima visibilità e una maggiore riservatezza.

Per accedere a queste impostazioni, entra nel tuo profilo, clicca sull’immagine e poi dal menu a tendina seleziona Impostazioni e Privacy.

Visibilità del tuo profilo e rete

Quando visiti il profilo di una persona, questa verrà avvisata della tua visita, anche se si trova al di fuori della tua cerchia. Ovviamente, anche tu puoi fare lo stesso cliccando sulla voce Chi ha visitato il tuo profilo? Questo dettaglio è estremamente utile, dal momento che ti consente di sapere chi è venuto a cercarti e, soprattutto, come: nei dettagli infatti viene specificato se ti ha trovato tramite la ricerca o l’homepage. Solitamente, è consigliabile tenere attiva questa funzione perché dà una notevole spinta alle possibilità di interagire con nuovi profili ed espandere la tua rete professionale. Ci sono però casi in cui preferiresti poter fare ricerche in maniera totalmente anonima, senza lasciare tracce. Per farlo, clicca su Opzioni di visualizzazione del profilo e cambia l’impostazione.

Quella predefinita mostrerà ai profiili che visiti tutti i dettagli su di te, con tanto di link al profilo. Puoi scegliere anche di condividere solo alcune caratteristiche generiche, e quindi i visitatori vedranno qualcosa del tipo “Giornalista nel settore Media online – Milano”, oppure essere totalmente anonimo, e in tal caso verrà visualizzato Membro anonimo di LinkedIn.

Se decidi di non aprirti del tutto, però, dovrai pagare uno scotto: non avrai più modo di vedere chi ha visitato il tuo profilo, indipendentemente dalle impostazioni del visitatore. A questo puoi porre rimedio passando a un abbonamento di tipo Premium, che ti darà accesso completo alle info di chi ha visitato il tuo profilo negli ultimi 90 giorni (sempre che quest’ultimo non abbia deciso a sua volta di restringere la visibilità del suo).

Lo stesso vale per le Storie, una funzione recentemente introdotta da LinkedIn che strizza l’occhio all’omonima funzione di Instagram e Facebook. Nell’impostazione predefinita, quando visualizzi una storia il creatore ti vedrà nell’elenco dei viewer, ma puoi decidere di dare informazioni generiche oppure vederla come membro anonimo di LinkedIn.

Come ti vedono gli altri?

Come forse sai, i profili di LinkedIn sono indicizzabili dai motori di ricerca. Chiunque può vederlo, anche senza essere iscritto al social del business. Puoi però decidere di avere un profilo pubblico differente da quello che vedranno i search engine e le persone non loggate sulla piattaforma. Cliccando su Modifica il tuo profilo pubblico potrai decidere cosa far indicizzare a Google & Co e quali sezioni vedrà chi non è iscritto alla piattaforma: potresti per esempio decidere di mostrare i gruppi a cui sei iscritto, le pubblicazioni e le esperienze precedenti solo agli utenti loggati, per esempio.

La tua foto, invece, merita un discorso a parte: puoi infatti decidere di renderla pubblica, così come di mostrarla solo agli utenti di LinkedIn o, restringendo ulteriormente, solo ai collegamenti di primo grado. Nome, numero di collegamenti e area geografica, invece, devono essere obbligatoriamente pubblici.

Un dato ancora più sensibile della foto è l’indirizzo e-mail e alla voce Chi può vedere o scaricare il tuo indirizzo email puoi decidere se mostrarla a tutti, ai soli collegamenti di primo grado, a tutti i tuoi collegamenti o, in generale, a qualsiasi utente di LinkedIn. Un dettaglio molto interessante è che, pur lasciandola visibile, puoi decidere di impedire che venga inclusa negli export di dati effettuati dagli utenti.

Alla voce Collegamenti, invece, puoi scegliere se chi fa parte della tua rete può vedere anche i tutti i tuoi collegamenti. Se decidi di disattivarla, in ogni caso, gli utenti del social potranno vedere i collegamenti che avete in comune così come quelli che hanno confermato le tue competenze sul tuo profilo.

Il cognome è mio e non te lo mostro

Navigando su LinkedIn avrai notati che ci sono numerosi profili dove il cognome viene abbreviato con la sola iniziale, tipo Mario R. o Christiane F. Se anche tu desiderassi per qualche motivo farlo, puoi andare alla voce Chi può vedere il tuo cognome così che solo chi fa parte della tua rete lo visualizzi in maniera completa. Chi fa una ricerca utilizzando il tuo nome e cognome, però, potrà trovarti lo stesso.

Ricerca del profilo tramite e-mail e numero di telefono

LinkedIn ti permette di andare alla ricerca dei tuoi contatti personali accedendo alla rubrica delle e-mail o del telefono. Fondamentalmente, vede se ci sono profili associati a questi dati e te li propone come collegamenti: una funzione molto utile per i nuovi iscritti al social, che possono così automatizzare l’invio di richieste di collegamento con le persone che già conoscono. Puoi evitare che accada agendo sulle impostazioni di Ricerca del profilo con email/numero di telefono, specificando se possono trovarti in questa maniera tutti, nessuno o i solo contatti di 1° grado.

Visibilità della tua attività su LinkedIn

LinkedIn ti permette di avere controllo sulla visibilità della tua attività. Alla voce Gestisci il tuo stato di connessione puoi decidere chi può vedere quando sei online, mentre Condividi gli aggiornamenti del tuo profilo con la rete potrai decidere se la tua rete riceverà notifiche in caso di modifiche al profilo (posizione lavorative, ruolo, foto…) e di anniversari lavorativi. Se stai facendo esperimenti sull’ottimizzazione del tuo profilo, ti consiglio di disattivarla, almeno momentaneamente: rischieresti di mandare un’infinità di notifiche poco utili.
La voce Fai sapere ai collegamenti quando il tuo nome è menzionato nelle notizie, come suggerisce il nome, invierà notifiche alla tua rete quando vieni menzionato su un post o su un articolo Pulse: ti consiglierei di lasciarla attiva, e di fare lo stesso alla voce Menzioni o Tag. Potresti infatti decidere di non dare agli altri utenti la possibilità di taggarti, ma dal mio punto di vista non è molto intelligente farlo, dato che limiterebbe di molto la tua visibilità.

Ultimo cenno è relativo alla visibilità di quello che posti: alla voce Follower puoi decidere se i tuoi aggiornamenti sono visualizzabili pubblicamente da tutti gli utenti LinkedIn o solo dai tuoi collegamenti. Anche in questo caso, consiglierei di renderli pubblici: se pubblichi un contenuto, del resto, vuoi raggiungere il maggior numero di persone possibili.

La gestione delle comunicazioni su LinkedIn

Nella sezione Comunicazioni delle impostazioni di LinkedIn puoi cambiare le impostazioni delle notifiche, sia quelle sulla piattaforma sia quelle inviate via mail. Se hai un’attività intensa, limita queste ultime, perché potresti seriamente venire subissato di e-mail ogni pochi istanti. Idem per i pop-up sui dispositivi mobile. Le impostazioni sono piuttosto granulari, così da permetterti in ogni caso di ricevere quelle che ritieni più importanti.

Nell’area Chi può contattarti, invece, puoi porre un freno a chi può inviarti inviti a connettersi (ma a meno che ti chiami Elon Musk te lo sconsiglio: il tuo obiettivo è quello di espandere la rete il più possibile, non certo di limitarla) e quali inviti puoi ricevere dalla tua rete. Personalmente, ho preferito evitare di ricevere inviti a seguire pagine e organizzazioni su LinkedIn e di non avere inviti alle newsletter. Il motivo? Troppe richieste, la maggior parte delle quali non in tema con le mie attività.

In Messaggi puoi infine decidere se ricevere o meno messaggi e messaggi InMail, oltre a messaggi sponsorizzati. Vale lo stesso discorso fatto poche righe sopra: sei su un social network e il tuo obiettivo è quello di espandere la tua rete, creando nuove connessioni e interagendo coi tuoi contatti. Non ricevere messaggi o Inbox limiterebbe enormemente la tua attività, dal momento che potresti chattare solo coi tuoi collegamenti di 1° grado. Puoi invece disattivare senza alcun impatto i messaggi sponsorizzati.

Altri profili consultati: un’opzione da disattivare

Nella voce Preferenze Account, nella sezione Preferenze sito, c’è una voce poco nota, attiva di default e che io ti consiglio di disattivare. Sto parlando di Altri profili consultati, che suggerisce a chi visita il tuo profilo ulteriori contatti LinkedIn cui potrebbero essere interessati. È molto utile per LinkedIn, che in questa maniera stimola gli utenti a continuare la navigazione, ma rischia di avere un impatto negativo sul tuo profilo: il tuo obiettivo è far sì che i visitatori spendano più tempo sulla tua pagina che a visitare altri profili. Togliendo il segno di spunta, eliminerai questa potenziale “distrazione”.

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Bablyo: il primo social (italiano) dove il prodotto non sei tu [la mia intervista per Startup News]

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Questa intervista è stata pubblicata su Startup News il 27 settembre 2021

Il mantra che ormai tutti abbiamo imparato a memoria è semplice: “Se su Internet qualcosa è gratis, il prodotto sei tu”. Prendi per esempio un social come Facebook: iscrizione e uso sono a costo zero, ma in realtà si tratta di un baratto, hai una vetrina e uno strumento di relazione ma in cambio loro si prendono i tuoi dati. Una logica diffusissima, non solo nel mondo social, ma che evidentemente non sta bene a tutti. Bablyo non funziona così: questa nuova piattaforma di servizi social è a pagamento e non usa i dati per fare business. Quando l’ho scoperto ho subito voluto conoscere chi ha avuto questa idea. Allora ho scambiato quattro chiacchiere con Gianluca Brenelli, Ceo di Teiasoft Srls, e con Alessandra Saponaro, vice presidente di Teiasoft e responsabile del progetto Bablyo.

Gianluca e Alessandra, come è nata l’idea di Bablyo?

Gianluca: l’idea di un social a pagamento mi è venuta qualche anno fa, osservando le dinamiche delle piattaforme tradizionali. Era evidente come, in contro tendenza rispetto agli inizi del periodo 2004/2006, queste avessero basato il loro business model esclusivamente sulla vendita di pubblicità, portando l’utente (e il suo tempo) a diventare il prodotto da vendere agli inserzionisti. Nel 2019 abbiamo quindi deciso che i tempi erano maturi per iniziare a lavorare sul progetto. Stavano infatti cominciando ad emergere le prime avvisaglie di quei problemi nel mondo dei social che oggi sono noti a tutti. Parlo ad esempio della viralità delle fake news, i danni e i rischi per la salute mentale degli adolescenti (secondo una recente inchiesta del Wall Street Journal, Instagram avrebbe un effetto negativo, rispetto alla percezione di sé e del proprio corpo, su una parte delle teenager, ndr), e molti altri ancora. Abbiamo poi iniziato a lavorarci giornalmente in concomitanza con l’inizio della pandemia e finalmente da pochi giorni siamo presenti sullo Store di Google in versione beta.

Qual è il modello di business?

Gianluca: il nostro modello di business rovescia completamente il paradigma dei social tradizionali. L’utente non è più il prodotto da vendere agli inserzionisti, ma è il nostro cliente.

Alessandra: questa è probabilmente la vera rivoluzione, se mi passi il termine. Dal momento in cui l’utente paga un abbonamento mensile si aspetta in cambio un servizio e, soprattutto, che questo rispetti veramente la sua privacy.

Gianluca: questo cambio di paradigma ci ha dato la libertà di creare un luogo virtuale che rispondesse a poche semplici domande: “Questa feature è utile per il Cliente? Il nostro servizio è di qualità?”. Noi non cerchiamo di far stare le persone il più a lungo possibile dentro Bablyo, non abbiamo inserzionisti ai quali mostrare i dati delle persone che hanno visto la loro inserzione pubblicitaria.

Alessandra: questo è un altro aspetto fondamentale. Non avendo pubblicità al nostro interno, trattiamo i dati dei nostri clienti solo per le finalità di erogazione del servizio, ovvero per far funzionare Bablyo.

Quali sono le principali caratteristiche di Bablyo?

Gianluca: la feature più importante per noi sta nella gestione dei minorenni all’interno della piattaforma. Ti faccio un esempio: in Bablyo non ci si può iscrivere se minorenni, ma io posso iscrivere i miei figli creando fino a quattro account “child” (compresi nel costo dell’abbonamento mensile). Come account “padre” manterrò il controllo della password e avrò una serie di opzioni configurabili.

Alessandra: alla fine ci saranno due social distinti in Bablyo. Uno dedicato ai minorenni e uno agli adulti. Le opzioni configurabili permetteranno punti di contatto tra i due mondi e saranno a carico dell’account padre.

Gianluca: essendo una piattaforma di servizi social, la scelta dei contenuti da vedere è a carico del cliente, che noi affettuosamente chiamiamo Bablyer. Venendo a mancare il concetto di amicizia o follower (almeno, nel modo in cui tradizionalmente li si intende), in Bablyo sono i contenuti, e gli argomenti che li definiscono, ad essere seguiti. Se io sono un appassionato di modellismo, configurerò gli argomenti e i contenuti che intendo seguire attraverso l’inserimento nell’apposita sezione di argomenti relativi al mondo del modellismo.

Alessandra: tra gli incentivi che pensiamo essere tossici, abbiamo anche eliminato la risposta ai commenti. Abbiamo notato infatti come troppo spesso sotto contenuti anche di qualità si aprano thread di commenti infiniti che esulano dal contenuto stesso.

Quali problemi e sfide avete affrontato durante lo sviluppo?

Alessandra: una volta raccolta l’idea ci siamo posti il problema di come strutturare Bablyo, sia da un punto di vista filosofico e conseguentemente tecnico. Possiamo dire che abbiamo lavorato per sottrazione. Studiando le piattaforme tradizionali ci siamo chiesti quali potessero essere quegli incentivi tossici che andavano eliminati, cosa portare al centro della piattaforma e cosa lasciare in disparte.

Gianluca: non è stato facile infatti scegliere di non avere, ad esempio, i like sui contenuti. Può sembrare una sciocchezza, ma in realtà ha un peso enorme nell’economia generale di una piattaforma social. Diciamo quindi che le sfide maggiori sono state più concettuali che tecniche.

Quali saranno i prossimi passi?

Gianluca: termineremo a breve la fase beta e, spero per fine anno, usciremo sull’Apple Store. Parallelamente ci concentreremo sulla ricerca di investitori che credano nel progetto. Non è facile, soprattutto in Italia, ma siamo sicuri della nostra idea e convinti che la risposta del pubblico sarà sicuramente premiante.

Alessandra: ovviamente svilupperemo tutte le idee che abbiamo in mente, e sono davvero molte. Vogliamo infatti fare di Bablyo uno strumento che possa essere utile anche nella vita reale.

 

Educazione civica digitale: l’intervista a Rachele Zinzocchi

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L’intervista a Rachele Zinzocchi

Che cosa si intende per educazione civica digitale? L’ho chiesto a Rachele Zinzocchi, professionista del digitale e animatrice del laboratorio di digital education. Qui trovi la presentazione del progetto:

L’educazione civica digitale

Nel corso dell’intervista Rachele ha tenuto a sottolineare che digital education si traduce appunto con “educazione civica digitale”, intesa come utilizzo responsabile e consapevole delle nuove tecnologie, della Rete e dei social. Abbiamo parlato di privacy, di sicurezza, del rischio violenza ma anche di questioni più filosofiche (Rachele è laureata in filosofia!) come per esempio il tradimento della promessa originaria di Facebook di connettere il mondo: il rischio invece è disconnettersi completamente.

Telegram e i ragazzi

Rachele è anche l’autrice di un libro su Telegram che si intitola “Telegram perché”. Ne ho approfittato quindi per chiederle se i ragazzi, in fuga da strumenti “vecchi” come i blog e Facebook, stanno approdando anche lì. La sua risposta è stata: sì. Perché si tratta di uno strumento nuovo, versatile ma soprattutto sicuro (i messaggi sono davvero blindati, non come su WhatsApp). Forse troppo sicuro: il rischio è che la possibilità di scambiare immagini che si autodistruggono, come inizialmente prometteva SnapChat, porti al diffondersi del sexting e del revenge porn. Rachele ha poi citato due canali Telegram meritevoli: quello per la diffusione della divina commedia e quello della Pastorale Giovanile di Molfetta. Suggerisce di seguire anche ilsito del suo mentore per quanto riguarda Telegram: bot di Piersoft.

Come contattare Rachele

Rachele Zinzocchi Telegram

Puoi trovare Rachele ovviamente su Telegram. La sua mail è rachelezinzocchi@gmail.com e il numero di telefono 392/9856823. Questo invece il link al gruppo Facebook sulla digital education.

 

Ascolta l’intervista qui

Puoi ascoltare la puntata 17 del podcast Genitorialità e tecnologia, con l’intervista a Rachele sull’educazione civica digitale, direttamente qui oppure su Spreaker:

Ascolta “#17 Educazione civica digitale: l’intervista a Rachele Zinzocchi” su Spreaker.

Altro che Cambridge Analytica: “Quello che tocca noi italiani è un problema diverso”. La mia intervista per Il24.it

Dopo lo scandalo Cambridge Analytica, Facebook sta correndo ai ripari. Ha messo a disposizione di tutti uno strumento per verificare se le proprie informazioni sono state in qualche modo travisate: si trova a questo link. Intervistato sul tema da Il24.it, ho però fatto notare che il problema è un altro, anzi di tratta di una vera emergenza.

Finora però le evidenze di questo uso politico in Italia sono di là da venire. “Quello che tocca noi italiani è un problema diverso” sottolinea Gianluigi Bonanomi, esperto di social media sentito da il24.it, “Le informazioni che condividiamo ci stanno danneggiando più dal punto di vista della reputazione” nel senso che “Ci stiamo scandalizzando per Cambridge Analytica” e sull’uso politico che si potrebbe fare dei nostri dati “ma in realtà, nella vita di tutti i giorni magari stiamo perdendo il posto di lavoro”. Infatti, secondo i dati forniti da Adecco “l’88% dei recruiter lavorativi – personale specializzato nell’assunzione e gestione delle risorse umane – dopo aver dedicato 8-9 secondi di attenzione al tuo CV vanno a vedere chi sei dal punto di vista umano su Facebook, e una persona su tre non arriva ai colloqui per quello che i recruiter trovano sui loro social”.  Nonostante Facebook metta in campo diversi dispositivi per tutelare la privacy degli utenti “i likes, i commenti, le immagini profilo, quelle di copertina ed altre cose sono pubbliche e può vederle chiunque”, sottolinea Bonanomi, compreso un eventuale datore di lavoro. Ma il problema non è solo Facebook in sè. “Noi – sottolinea Bonanomi – stiamo condividendo informazioni anche senza accorgercene. Esiste ad esempio l’app “Runtastic” che monitora le performance sportive, gratuitamente, registrando calorie e percorso effettuato facendo jogging, per poi incoraggiarti a condividere su Facebook”. Se una banale attività sportiva come questa è un abitudine consolidata, condividendo un’ informazione simile faccio sapere a tutta una rete di persona da che ora a che ora non sono in casa. Insomma, i ladri ringrazieranno. “Va bene lo scandalo per CA – continua Bonanomi – ma il ragionamento è ancora più basilare: ogni volta che c’è un problema di privacy, quel problema sta tra la tastiera e la sedia. Basterebbe un po’ più di cultura e di consapevolezza nell’utilizzo di questi strumenti”.

Per leggere altre mie interviste, fai clic qui.

Social media: privacy, sicurezza e lati oscuri a Nessun Dorma (Espansione TV)

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Perché i nostri dati sono così preziosi? Quando e come li cediamo? Come proteggerli? Venerdì 23 marzo 2018 ho avuto il piacere di partecipare alla puntata di Nessun Dorma su Espansione TV dedicata al tema Privacy insieme a Riccardo Saporiti, giornalista collaboratore di Wired Italia, Gianluca Lombardi di Mondoprivacy,  e Luca Ganzetti, responsabile dell’azienda di sicurezza informatica Waylog, con cui abbiamo dato risposta a queste e altre domande.

Il video del mio intervento

In particolare ho parlato di nativi digitali, sharenting, social network e privacy, reputazione online, bufale, digital detox, fomo e rischi legali. Qui puoi vedere il video con i miei interventi:

Il link all’intera puntata

Ecco il link alla puntata intera: https://goo.gl/WSuZmk

Caso datagate, Facebook vende le nostre informazioni? La mia intervista a il24.it

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Il 20 marzo 2018, dopo lo scandalo datagate che ha coinvolto Facebook, il sito il24.it mi ha intervistato sul tema. Questo l’articolo (pubblicato orginariamente qui) a firma di Francesco Petronella:

FACEBOOK VENDE LE NOSTRE INFORMAZIONI? PARLA L’ESPERTO:
“SE SU INTERNET UN SERVIZIO È GRATIS, IL PRODOTTO SEI TU”

Lo scandalo “Cambridge Analytica” sta montando inesorabilmente sui social e nelle discussioni dei decision-makers. A rispondere dell’accusa di divulgazione non autorizzata di dati personali, per aiutare Donald Trump a vincere le elezioni del 2016 negli Stati Uniti, è il colosso dei social media Facebook. È di qualche ora fa la notizia che l’amministratore delegato di Cambridge Analytica, Alexander Nix, è stato segretamente filmato da una troupe della rete televisiva britannica “Channel 4” mentre ammetteva alcuni sporchi trucchi usati per favorire i propri clienti; in particolare Nix nel filmato dice di aver offerto mazzette e “belle ragazze” per incastrare uomini politici avversari dei suoi clienti.

Lasciando da parte la strumentalizzazione della femminilità a fini commerciali e le polemiche che stanno salendo in queste ore, dalla vicenda emerge un dato incontrovertibile: il social network fondato da Mark Zukerberg vende i dati dei suoi utenti.

Ma non è forse il segreto di Pulcinella?

“Direi di sì” risponde Gianluigi Bonanomi, giornalista hi-tech e formatore sui temi del digitale sentito dalla redazione de il24.it. “In tutti i corsi che tengo su Facebook chiedo, soprattutto ai ragazzi, di appuntare una frase di Douglas Rushkoff: “Se su Internet un servizio è gratis, il prodotto sei tu”. Bonanomi, che sul suo sito pubblica contenuti inerenti a questi temi, chiarisce che “Questa lampante verità si riferisce alla profilazione di noi utenti a scopo marketing e non. Con il caso Cambridge Analytica si è passato il segno, tant’è che iniziano a saltare delle teste in Facebook”.

Ma all’atto pratico, come può questa “fuga di dati” influenzare l’opinione pubblica e la politica di alcuni stati? Come funziona?

“Nel caso specifico l’autorizzazione che gli utenti davano per raccogliere dati attraverso l’app “thisisyourdigitallife” per scopi accademici è stata disattesa” spiega l’esperto “I dati sono stati venduti alla Cambridge Analytica, azienda di data miningimpegnata nella campagna pro-Trump. Quei dati, informazioni preziosissime su utenti e loro amici, erano usati per influenzare il voto, come solitamente si fa per indirizzare un acquisto. Si tratta di marketing, e qualcuno potrebbe obiettare che non ha senso discriminare tra marketing commerciale e marketing politico: in effetti quando negli anni Novanta studiavo Scienze Politiche ci misuravamo con distribuzione gaussiana del voto, posizionamento dell’offerta politica e strumenti della propaganda, molto simili a quelli del marketing”.

L’Ad di Facebook: Mark Zuckerberg

Facebook però, negli ultimi mesi, modificato l’algoritmo che regola il flusso di contenuti, privilegiando i post degli utenti rispetto a quelli delle pagine, cos’è cambiato?

“Per gli utenti è cambiato poco, per chi gestisce fan page come me sono aumentati mal di testa e frustrazione. La portata organica, gli effetti della comunicazione social non a pagamento, è ormai irrilevante. Ma è un trend iniziato molto tempo fa, da quando i social media manager e le aziende si sono dovuti arrendere all’evidenza:Facebook non è un “free media”, ma un “paid media”. Un tempo tu imprenditore pagavi giornali e altri mezzi di comunicazione per far arrivare il messaggio al tuo cliente, ora devi pagare Zuckerberg e soci.

Qualcuno dice che le guerre di domani si combatteranno sui social, è una semplice suggestione o qualcosa di vero c’è?

“Più che sui social, sul digitale in generale: tant’è che da anni si parla di “digital wars”. Attacchi hacker, boicottaggi online, fake news sono strumenti usati quotidianamente: questo ci deve far capire che ai fucili stiamo sostituendo i bit, basti pensare a quando Cina, Russia e Corea del Nord stanno investendo nei cosiddetti hacker di stato”.

Su questi argomenti, Gianluigi Bonanomi ha scritto, insieme ad altri collaboratori, un libro programmatico intitolato “Manuale per difendersi dalla post-verità. Come combattere bufale e inganni del mondo digitale”.

 

 

 

GDPR, 10 cose da sapere sul nuovo regolamento europeo sulla privacy

L’adozione del nuovo regolamento europeo che sostituirà, fra pochi mesi, le precedenti leggi sulla privacy porterà un incremento dei compiti relativi al trattamento dei dati da parte delle aziende. Ecco le 10 cose da tenere presenti.

  1. Che cosa vuol dire GDPR?

Dietro la sigla GDPR si celano le parole General Data Protection Regulation, ovvero Regolamento Generale per la Protezione dei Dati. Ma il vero obiettivo della normativa non è la protezione dei dati in sé, quanto la protezione dei diritti dei proprietari dei dati. E per proprietario non si intende l’azienda che ha raccolto e memorizzato i dati stessi, ma la persona fisica cui quei dati si riferiscono.

  1. Quando entrerà in vigore la GDPR?

25 maggio 2018: questa data apparentemente innocua pare essere diventata lo spauracchio degli IT manager di tutta Europa. La ragione è semplice: essa segnerà la definitiva entrata in vigore del nuovo regolamento continentale per il trattamento dei dati, la famosa GDPR o in termini tecnici il Regolamento UE 2016/679.

  1. Che cosa fa la GDPR?

La GDPR, in pratica, mette in atto tutta una serie di norme concernenti il modo in cui un’azienda (pubblica o privata) raccoglie dati sui cittadini (clienti, pazienti, o altro), il modo in cui li deve conservare per far sì che le informazioni non vengano divulgate oltre il necessario o senza permesso, le modalità con cui i proprietari dei dati possono accedere alle informazioni che li riguardano per verificarle, modificarle o richiederne la cancellazione, e le regole da seguire nel caso si rilevi un’intrusione o un danneggiamento dei dati registrati.

  1. Sono previste sanzioni?

Il nuovo regolamento fissa sanzioni pesantissime per chi, in un modo o nell’altro, non rispetta la normativa. Rispetto alle norme precedentemente in vigore, tipo la direttiva 95/46 (legge sulla privacy), si deve registrare per prima cosa una maggiore organicità delle regole, e secondariamente questo cambio di prospettiva per cui la GDPR mette effettivamente al primo posto l’interesse delle persone cui i dati si riferiscono. Tanto che, per esempio, le mille scappatoie presenti nella legge sulla privacy riguardo al consenso al trattamento sono state praticamente tutte chiuse. Chi per esempio provasse a contattare (anche via email) una persona che non ha dato il permesso esplicito di essere raggiunta, rischia multe salatissime.

  1. Come saranno trattati i dati sensibili?

Se con la nuova normativa tutti i dati personali sono considerati sensibili, i dati sanitari lo sono in modo speciale, tanto che sono previste ulteriori restrizioni per il loro utilizzo, legate all’estrema confidenzialità. I dati sanitari, per fare un esempio “scottante”, si potranno usare solo per finalità connesse alla salute (cura), per la supervisione del sistema sanitario nazionale (governo) e per la ricerca purché di pubblico interesse. Inoltre, i singoli governi possono introdurre ulteriori limitazioni o condizioni particolari per il trattamento.

  1. Ci sono anche i vantaggi?

Detta così, l’introduzione della GDPR sembra essere solo una grande fonte di grattacapi per ogni azienda, pubblica o privata, che raccolga, memorizzi e utilizzi dati relativi a persone. In realtà, si tratta anche di una grande opportunità da cogliere. La natura stessa del regolamento, infatti, incoraggia una riprogettazione completa delle basi dati aziendali, che vanno ripensate in modo da assicurare la privacy “by design” e “by default”, ovvero direttamente in fase di progetto e non facoltativa. E questo permetterebbe, per esempio, di riorganizzare in modo coerente i tanti database che spesso in azienda sono cresciuti in modo disordinato e indipendente uno dall’altro, con il risultato di rendere difficile il confronto fra i dati e l’utilizzo combinato dei database stessi, riducendo nettamente l’efficacia di questi strumenti. Inoltre, potrebbe essere l’occasione buona per “pulire” database che sono in produzione da tempo e che, molto probabilmente, conterranno una elevata percentuale di dati obsoleti, incompleti, mal codificati o semplicemente sbagliati.
Una progettazione di questo tipo avrà dei vantaggi anche in termini di sicurezza.

  1. Le sfide a breve: le priorità per le aziende

In attesa che si concretizzino i vantaggi promessi dalla GDPR, le aziende sono alle prese con i compiti fondamentali per arrivare all’implementazione corretta del regolamento a fine maggio. Il garante della privacy, in particolare, ha individuato già diversi mesi fa tre priorità per le pubbliche amministrazioni: selezionare una persona per il ruolo di Responsabile della protezione dei dati personali (DPO, Data Protection Officer), implementare le procedure interne per istituire i registri dei trattamenti, e definire le procedure relative alla rilevazione, registrazione e comunicazione agli interessati di eventuali violazioni dei dati.

  1. Chi è il Data Protection Officer?

Fra le altre cose, come visto nel punto precedente, la GDPR definisce anche una serie di figure precise che si occupano della gestione dei dati in azienda. E se nella maggior parte dei casi si tratta di dare un nome nuovo a figure preesistenti, come “data controller” e “data processor”, la direttiva introduce anche una new entry nell’organico. Si tratta della figura del Data Protection Officer, probabilmente una delle novità più rilevanti della GDPR. Di fatto, è una persona che può essere sia interna che esterna all’azienda – un consulente per esempio- e il cui compito è quello di vigilare perché siano poste in essere correttamente tutte le procedure tecniche e amministrative che garantiscono il corretto trattamento dei dati secondo la direttiva europea.

  1. Quali sono gli incarichi principali del DPO?

Il Data Protection Officer è, come visto, una figura operativa e di controllo, che avrà quattro incarichi principali. Dovrà informare il personale che si occupa dei dati sulle disposizioni della GDPR, controllare che le normative stesse vengano attuate correttamente, fare da ponte fra i responsabili del trattamento dati e il Garante della Privacy, e assicurarsi che le norme siano rispettate in modo da scongiurare il pericolo di sanzioni. Il fatto che il ruolo sia a cavallo fra l’amministrativo e l’operativo, e soprattutto che richieda solide competenze sia in tema di legge (deve conoscere a fondo la direttiva e i suoi corollari, le leggi sulla privacy eccetera), sia in tema di gestione operativa dati e cybersecurity, fa sì che ci siano pochi professionisti in grado di ricoprire il ruolo. Anche se vari organismi in Europa si sono mossi tempestivamente per organizzare la formazione e la certificazione di figure adatte al compito di DPO, non è difficile prevedere un periodo iniziale di scarsa disponibilità di personale adeguato, cosa che costringerà molte aziende a ricorrere a consulenti esterni o, nel caso di pubbliche amministrazioni, a consorziarsi per condividere un DPO fra varie organizzazioni.

L’importante, comunque, è evitare che la nuova figura venga di fatto svuotata come è successo all’attuale “responsabile del trattamento dati”, indicato come referente dalla legge sulla privacy, che spesso è ridotto a essere poco più che una semplice firma su un foglio.

10. Per approfondire ulteriormente

Il posto migliore dove reperire informazioni sulla GDPR è certamente il sito del Garante della privacy. Trovate tutte le informazioni sul nuovo regolamento sul sito www.garanteprivacy.it/regolamentoue.

La mia intervista all’Eco di Bergamo (9 marzo 2016)

L’Eco di Bergamo, prestigioso quotidiano orobico, mi ha intervistato in merito alla questione “Facebook e privacy”, citando “Non mi piace“. L’autore dell’articolo è Bruno Silini.

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Social network – La grande guerra della privacy

Sicurezza. Gli Stati chiedono accesso ai messaggi privati, Facebook e Apple si rifiutano di fornire i dati

Se il filosofo Eraclito vivesse ai nostri giorni, al suo motto «tutto scorre» forse aggiungerebbe «nei social». Nelle maglie di Facebook, Whatsapp, Twitter, Instagram (solo per citare i più popolari) c’è molto di noi, nel bene e nel male.
È incontestabile una contaminazione di noi stessi nei social, tantoché che se si volesse saperne di più sulla nostra privacy essi costituirebbero, per eventuali inquirenti, una ricca miniera di informazioni. Qualche giorno fa il responsabile di Facebook Brasile, Diego Dzodan, è stato arrestato in seguito alle ripetute richieste della giustizia affinché la sua società rendesse disponibili informazioni riguardanti scambi di messaggi via Whatsapp tra trafficanti di droga. Un giudice federale di Los Angeles ha ingiunto ad Apple di fornire assistenza tecnica per ricavare informazioni utili dall’iPhone di uno dei due attentatori della sparatoria di San Bernardino.
Vicende che sollevano in maniera radicale il problema della privacy digitale. Si sa che un bisturi può salvare una vita, ma può  anche essere l’arma di un delitto. Dipende dall’uso che ne facciamo. Così è anche per Facebook. Si rivela un ottimo alleato per tenersi in contatto con gli amici, per condividere interessi, per aggiornarsi oppure per pubblicizzare attività e organizzazioni.
Tutte cose buone che la web revolution ha permesso. Ma, se non opportunamente compreso, il social network può diventare un mezzo di autolesionismo della nostra identità e del nostro benessere, una piattaforma per veicolare truffe o anche un modo per attuare progetti criminali. È necessaria una maggiore consapevolezza. In questa prospettiva «Non mi piace. Il contromanuale di Facebook: 101 cose da non fare sul social network di Zuckerberg » può essere una guida opportuna per scrollarsi di dosso le insidie di questo angolo affollato della rete. A scriverlo è Gianluigi Bonanomi, giornalista e docente lecchese, fondatore di ClasseWeb, direttore della collana eBook «Fai da tech» e assidua presenza in Bergamasca in fatto di nuovi media, clouding e gestione on line della reputazione.
Sulla cronaca di questi giorni Bonanomi ha le idee chiare: «Zuckerberg non è un filantropo e Facebook ci invita a usare la sua piattaforma (gratuitamente) per farci i fatti altrui solo perché, ogni volta che ci colleghiamo a qualcuno o qualcosa, diamo informazioni commerciali preziosissime. Questo però non giustifica il fatto che la multinazionale possa infischiarsene delle legislazioni nazionali. A mio parere quei dati andavano forniti alle autorità ».
«Intendiamoci: io amo Facebook» continua Bonanomi. «Tuttavia buon senso e prudenza dovrebbero sempre accompagnarci nella gestione di un profilo. Poiché i primi a fare le spese di un uso sconsiderato siamo noi. Troviamo ogni sorta di manuali che spiegano come usare Facebook. Questo libro fa esattamente il contrario, elencando le cose da non fare assolutamente: falsa modestia, post furbetti per catturare i “like”, sovraesporre i figli con centinaia di immagini, tsunami di spam e continui lamenti… ». E ancora: creare una pagina per un animale domestico, un profilo «di coppia», lasciare aperta la bacheca alla possibilità che ognuno possa scrivere qualunque cosa. Adesso c’è la moda dei selfie, ma non tutti sono adeguati. Si vedono cose che lasciano perplessi: ragazze in bagno con labbra a canotto, pronostici di una partita di calcio scritti sul décolleté e foto di sé oppure dell’ex senza veli: «Una sorta di vendetta per aver tagliato una relazione. È un fenomeno diffuso tra i ragazzi e colpisce nel 90% dei casi le donne. Non c’è da scherzare: il 47% delle vittime di gesti del genere ha avuto pensieri suicidi e quasi la metà ha subito episodi di stalking on line».
Una fotografia (ogni anno vengono pubblicate in Facebook centinaia di miliardi di immagini) può segnare un  destino:
«Se siamo alla ricerca di un lavoro, una foto sbagliata può mandare in fumo un colloquio. L’88% dei responsabili del personale usa i social network per indagare sui candidati prima di fissare un appuntamento; nel 55% dei casi vengono scartati a priori per i
contenuti trovati in rete. Quindi è meglio evitare di pubblicare foto di noi con un sorriso ebete e un boccale di birra in mano. Lo stesso vale per altri contenuti sconvenienti su politica e religione o che mostrano atteggiamenti aggressivi. Parafrasando Benjamin Franklin possiamo dire che ci vogliono molti sforzi per costruirsi una buona reputazione on line, ma basta una foto su
Facebook per distruggerla».
Una pratica decisamente da evitare è aggiungere troppi amici: «Accumularli come se fossero punti dell’Esselunga non ha molto senso, se pensiamo che lo scienziato Dunbar fissò a 150 il limite delle persone con cui un individuo è in grado di mantenere relazioni sociali stabili».
Per ultimo, se una persona «amica» vi infastidisce non fatevi scrupoli ad eliminarla dalla vostra cerchia. Meglio un amico in meno che una maggiore dose di stress da sopportare.

Zero privacy. Kit di autodifesa

Questo kit di autodifesa digitale per difendere la propria privacy è un instant-book della collana (V)book di Vidèa. Parla di riservatezza dei dati partendo da un punto di vista però sconfortante: proteggere la propria privacy, nell’era del datagate e dei social network, è praticamente impossibile. Eppure possiamo mettere in atto alcuni accorgimenti per “resistere”: si parla di “cerchie”, crittografia, sofware libero, cookie, IP mascherati, Proxy Anonymizer, geolocalizzazione e smartphone blindati. Interessante l’elenco dei servizi sicuri alternativi ai “soliti”: Git Annex invece di Dropbox, Rise Up al posto di Gmail, Jitsi per sostituire Facetime, DuckDuckGo per non usare Google e via dicendo. Da leggere.

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