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[Startup News] Mike Rubini, lo startupper… bootstrapped: “Si può partire senza capitali né team!”

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Questo articolo è stato pubblicato su Startup News il 2 novembre 2021

Mike Rubini, pugliese, ha 30 anni. Si occupa da diversi anni di SaaS (software as a service): si tratta di un business model nel quale gli utenti comprano l’accesso a un prodotto software che li aiuta in una qualche maniera, tipicamente con sottoscrizione su base mensile. Mike non ha un solo prodotto, ma gestisce 9 prodotti software (io l’ho conosciuto seguendo Treendly, tool per scoprire i trend più interessanti online), che ha portato sul mercato senza investimenti di alcun tipo, né interni né esterni. In questi casi si parla di business bootstrapped, dove l’imprenditore fa tutto da sé. Mike, tra l’altro, è un “one man brand”: non ha alcun team.

Come mai la scelta di fare tutto da solo?

I media pubblicano in larga parte storie di startup che hanno ricevuto finanziamenti, magari vc-backed (sostenuti da venture capital, ndr) e trovo questo sia fuorviante perché chi inizia può pensare che quella sia l’unica via. Invece trovo interessante raccontare come è possibile avviare una startup tecnologia senza investimenti iniziali di denaro, e solamente con le proprie forze.

Raccontaci come fai tu…

Sebbene io mi occupi su base giornaliera di tutta l’operatività relativa al mio business (codice, prodotto, supporto, marketing, ecc.), il mio background non è tecnico: ho studiato musica, in particolare jazz, per la maggior parte della mia vita. Ho imparato da solo come fare l’operatività e nel 2021 ho portato il business a raggiungere un ARR (annual recurring revenue, ndr) di circa 100.000 dollari. Ora la sfida principale è quella di capire come strutturare l’azienda dal punto di vista delle risorse umane, ma anche della fiscalità.

Qual è il tuo modello di business?

Generalmente i miei prodotti software adottano due modelli di monetizzazione. Il primo, usato su prodotti quasi B2C, low-touch e self-serve come Treendly, punta ad avere molti abbonamenti ricorrenti annuali con ticket molto basso e prevede un piano free al fine di monetizzare la base utenti con sponsorship esterne, e affiliazione.

E per il B2B?

Il secondo modello, usato su prodotti B2B e high-touch come Groouply, punta ad avere pochi abbonamenti ricorrenti mensili con ticket molto alto. Generalmente questo secondo tipo di prodotti non prevede periodo di prova, né un piano gratuito, né tantomeno scontistica di alcun tipo.

Changers, la community per allenare le soft skill: intervista ad Alessandro Rimassa

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Questo articolo è stato pubblicato su Startup News nel marzo 2021.

Ho conosciuto Alessandro Rimassa, imprenditore ed esperto di future of work ed education, alcuni anni fa, indirettamente. Lessi un suo libro che, all’epoca, fece molto parlare di sé: “Generazione mille euro”, un testo che parlava di “lavoratori fluttuanti e praticanti seriali”, che divenne anche un film.

Da allora Alessandro ha fatto mille cose, da Talent Garden a Kopernicana: tra queste, l’ultima in ordine di tempo, “Changers”. Gli abbiamo chiesto di che cosa si tratta.

“Praticamente Changers è una community (nata a settembre, ora conta 3600 iscritti su Facebook, ndr) ma, soprattutto, è una scuola di soft skill”.

Tema molto interessante, troppo dibattuto?

“Beh, c’è molta attenzione, da alcuni anni, sulle competenze trasversali. Secondo me le hard skill restano le competenze fondamentali, a patto che le si rinfreschi ogni due, tre anni. In un momento di grande cambiamento come quello che stiamo vivendo per colpa della pandemia, tempo di innovazione e trasformazione, le soft skill permettono di rimanere sul mercato”.

Eppure non tutti l’hanno compreso…

“In effetti molti dicono che non hanno tempo, non vogliono investire sulla propria crescita, evidentemente hanno altre priorità. È un grave errore. Anzi, se investi sulle soft skill è proprio per avere più tempo, per organizzarti meglio, per concentrarti sulla tua carriera, per sviluppare la capacità di collavorazione”.

Intendi collaborazione?

“No, collavorazione, con la V: un mix di collaborazione e lavoro. Termine coniato tempo fa da Nicola Palmarini (nel saggio per Egea “Lavorare o collaborare? Networking sociale e modelli organizzativi del futuro”, ndr), indica la capacità di lavorare insieme ma anche di delegare oppure di dichiarare la propria incapacità di fronte ad alcuni compiti e così via”.

Quale altra soft skill metteresti al centro?

“Dopo anni di innovazione e disruption, si è persa la centralità della creatività. Che non vuol dire avere il colpo di genio. La creatività si allena, si coltiva con metodo. Faremo anche dei corsi su questo”.

Altri corsi in cantiere?

“Per esempio quello per costruire abitudini positive. Faccio un esempio: secondo me ognuno di noi dovrebbe dedicare un’ora alla settimana per incontrare, di persona, qualcuno di stimolante. È un’abitudine straordinaria non solo per allenare il network, ma anche per accelerare la creatività”.

Passiamo dal mondo delle soft skill a quello delle startup. Ultimamente hai investito in diverse nuove imprese, per le quali hai fatto anche da mentore…

“Preferisco definirmi un “active investor”…”

In che senso?

“Entro nelle startup, al momento otto, mettendoci dei soldi e partecipando attivamente, a volte entrando nel Cda. Le aiuto concretamente, metto a loro disposizione la mia esperienza da imprenditore e le mie conoscenze.”

Puoi dare tre consigli a chi vuole costruire una startup?

“Primo: mi spiace dirlo, ma l’idea vale zero! Conta solo la messa a terra. Non portate in giro idee ma prototipi, del resto ora costruire prototipi costa pochissimo, a volte nulla.”

Secondo suggerimento?

“Il modello di business deve essere credibile. Recentemente ho visto una startup dove ai primi quattro anni di perdita come per magia arrivava un quinto anno d’oro. Meglio piuttosto partire in piccolo ma arrivare in fretta al break-even.”

E l’ultima dritta?

“Le startup non si costruiscono da soli: serve un team. Puntate sulle persone. Puntate sulla collavorazione.”

L’agilità delle startup: intervista a Matteo Sola

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Questa mia intervista a Matteo Sola di Kopernicana è stata pubblicata su Startup News il 23 febbraio 2021.

Le grandi corporate vogliono imparare dalle startup come essere più “agili”: più capaci di captare ogni genere di stimolo con i propri sensori, ora sempre più attivi sia verso l’esterno che verso l’interno.

Matteo Sola è HR, formatore ed esperto di digital HR transformation. Nella sua carriera, si è occupato soprattutto di formazione aziendale come strumento di cambiamento in contesti di digital transformation, specializzandosi nell’applicazione degli approcci digitali alle risorse umane, in particolare employee experience e agile management. In Talent Garden, la più grande piattaforma europea di spazi di coworking per talenti digitali, tra il 2016 e il 2019 ha ricoperto diversi ruoli occupandosi di formazione per le corporate, Talent Acquisition, Learning & Development ed HR business partnership per l’Italia e l’Irlanda. È stato “People Learning & Development Lead” per Musement, principale digital player del mondo delle destination experiences e parte del gruppo TUI, occupandosi in particolare dell’implementazione del sistema OKR, tematica per cui oggi è consulente per molte altre realtà.

Da fine 2020 è “HR Learning & Development Leader” di Iliad Italia, oltre ad essere Partner di Kopernicana, società di consulenza in ambito trasformazione organizzativa e new way of working. È inoltre fondatore e coordinatore scientifico del master in Digital HR della Talent Garden Innovation School e nella faculty dell’università Bicocca di Milano.

Con Matteo abbiamo parlato di organizzazione aziendale, anche per il mondo delle startup.

Che cosa intendi per agilità organizzativa in azienda? Perché connette il mondo startup con il mondo corporate?

Per agilità organizzativa oggi intendiamo molte cose. Il nuovo paradigma VUCA (Volatilità, Incertezza, Complessità e Ambiguità, ndr) è noto già da tempo, ma la pandemia ha reso ancora più evidente come la realtà in cui viviamo sia complessa, ambigua, volatile e incerta, ma anche come la velocità del cambiamento continuo renda sempre più difficile pianificare e controllare, per non parlare di prevedere il futuro. Non a caso è tornato di moda il concetto di antifragilità di Taleb.

Per questo le grandi corporate vogliono imparare dalle startup come essere più “agili”: più capaci di captare ogni genere di stimolo con i propri sensori, ora sempre più attivi sia verso l’esterno (mercati, competitor, professionisti, business in generale) che l’interno (le nostre persone e i loro bisogni, i feedback dei colleghi, le dinamiche interne) e reagire di conseguenza, cambiando rapidamente direzione quando serve.

Agilità significa abbattere muri e barriere, connettere ed ibridare (mestieri, professioni, risorse), mettere a fattor comune e sperimentare più di ogni altra cosa. Buttarsi (in modo ragionato) per scoprire cose nuove e metterle alla prova con la realtà, invece di progettare la soluzione perfetta (che non esiste) per anni e poi scoprire che è perfetta, ma il paziente nel frattempo è morto (e da mesi).

La startup nasce per questo, perché è intrisa di coraggio, di velocità (che è la velocità imposta dalla tensione alla sopravvivenza) e di un purpose forte, mentre tutti gli altri devono imparare a ragionare di più in questa chiave.

Le barriere stanno cadendo (se non sono già cadute) e viviamo una nuova era della sperimentazione continua.

E l’Agile HR?

L’”agile” in senso stretto è per me una filosofia e un mindset, in primis organizzativo, che tento di portare nel mio lavoro tutti i giorni, ora passato dal contesto “coding” originario alle altre funzioni, per esempio l’HR. Riesce a farlo perché in realtà è un tema di coordinamento di persone e di progetti in una certa ottica.

Poi (solo in seguito) rimanda a un insieme di metodologie e strumenti utili a stimolare e gestire questa sperimentazione, a cambiare, a evolvere attraverso ragionamenti, riflessioni e messa a fattor comune di talenti diversi. Un patrimonio che varia a seconda del contesto e dello scopo e che molto può essere utile ad HR e management in generale, per contaminarsi con l’ecosistema digital e non solo. L’HR deve diventare più agile in prima persona e più in grado di supportare e diffondere l’agilità negli altri.

Come declini l’agilità per una startup? 

Quando mi capita di supportare una startup o scale-up, un acceleratore o un incubatore come consulente di Kopernicana, ragiono sul tema del difficile equilibrio che bisogna trovare tra il “darsi una struttura” tanto caro ai fondatori e al management quando le cose iniziano a funzionare e sembrano scappare di mano e l’esigenza delle persone di “rimanere agili, rimanere noi stessi”.

Le due cose non sono in contrapposizione, dipende dal come ci lavoriamo. La chiave sta nel non copiare le corporate del passato e fare le cose come sono sempre state fatte (magari assumendo alcuni mega manager che non conoscono il nostro contesto e cultura, perché difficilmente questi innesti funzioneranno) ma sperimentare e trovare la nostra strada per crescere, investendo sulla capacità delle nostre persone, pur facendosi aiutare da consulenti e mentor che ne hanno viste tante. Non è un tema solo di compromessi: dobbiamo rimanere agili pur diventando grandi.

Che dritte daresti a uno startupper?

Di fare alcune cose:

– Di chiarire e poi comunicare sempre al meglio il proprio purpose originario, perché è la forza della sua organizzazione

– Di investire nel disegno del proprio business model, connettendolo bene al purpose, all’impatto che si vuole portare. Senza un modello di business sostenibile, che includa nella parte “risorse chiave” le persone di oggi ma anche quelle potenziali di domani, che lavoreranno per noi prima ancora che esistano e servano davvero nel contesto attuale, non si dura a lungo.

– Di chiarire le priorità strategiche e il modo di allineare le persone, utilizzando da subito strumenti come gli OKR (che ci aiutano anche a rimanere agili), perché l’eccesso di divergenza e la mancanza di focus nel lavoro delle persone possono uccidere di più della mancanza di soldi.

Di non farne altre:

– Non avere fretta di dotarsi di grandi processi (magari vecchi) e di manager, in un mondo dove i manager saranno sempre di meno, non di più.

– Non tardare troppo ad investire in persone che si occupino di altre persone in azienda o in competenze HR in generale. Ho visto troppo spesso “correre ai ripari” quando si hanno già 80, 100 persone o più, rendendosi conto che non si è fatto altro che assumere (con o senza criterio) per sostenere la (presunta) crescita del business, per poi ritrovarsi senza capacità di gestire quelle persone: di sostenere la crescita e il benessere, di salvaguardare il senso di equità interna, di costruire una vera people experience dando risposte ai bisogni concreti in modo sostenibile ecc.

– Non pensare che il senso di quello che si sta facendo possa rimanere per sempre come qualcosa di ovvio: forse (forse) per i founder sarà così anche dopo 5 anni, ma per tutti gli altri, se il purpose non verrà ribadito, ripetuto ed alimentato continuamente (creando in questo modo una vera cultura nel tempo), l’ambiente di lavoro e il significato di quel lavoro non verrà percepito nello stesso modo.

Hacker Space, storia della bevanda che ha hackerato RedBull: intervista ad Alessandra Damiani [intervista per StartUP News]

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Questo articolo è stato pubblicato su StartUP News il 13 ottobre 2020.

Hacker Space, storia della bevanda che ha hackerato RedBull: intervista ad Alessandra Damiani

Il marchio Hacker si distingue da RedBull o altri appunto per il suo carattere, del quale la maschera stessa è il simbolo: Anonymus non è infatti un qualcosa di commerciale; è un gruppo che prende una certa posizione politica manifestandosi sovversivamente, spesso ponendosi anche contro il sistema.

Un amico, un hacker etico, qualche giorno fa mi ha chiesto:

– Lo sapevi che esiste una bevanda hacker?
– Una bevanda hacker? In che senso?

Mi ha fatto conoscere Hacker Space, un energy drink con disegnata, sulla lattina, la celebre maschera “Anonymous” di Guy Fawkes.
Volevo sapere di più: – Ma tu li conosci? Così mi ha presentato Alessandra Damiani, responsabile delle vendite, e così è nata questa intervista.

Ciao Alessandra, mi parli un po’ di Hacker Space?

Certo! L’azienda Dr. Heidrich ha sede a Lipsia, in Germania, e si occupava in principio di import-export di diversi tipi di prodotti. L’anno scorso la titolare, di nazionalità ceca, sedeva in un bar con un paio di amici e, detto in breve, ha avuto l’idea di ”hackerare” la ricetta di RedBull per creare un energy drink che fosse più conveniente ma anche più sovversivo. Ora sta nascendo una nuova azienda con sede a Berlino, la HASPACO (Hacker Space Company), che si occuperà esclusivamente dei prodotti Hacker.

In cosa si differenzia rispetto a RedBull?

Il marchio Hacker si distingue da RedBull o altri appunto per il suo carattere, del quale la maschera stessa è il simbolo: Anonymus non è infatti un qualcosa di commerciale; è un gruppo che prende una certa posizione politica manifestandosi sovversivamente, spesso ponendosi anche contro il sistema. Allo stesso modo, Hacker si pone contro il “sistema” degli energy drink ed esce sul mercato in maniera piuttosto sovversiva rifiutando di cedere a grassi investimenti pubblicitari come quelli della concorrenza (che poi ricadrebbero anche sul prezzo, come nel caso della concorrenza), rendendosi in questo modo un prodotto ben più accessibile e di carattere forte, prendendo dunque una netta posizione politica.

Chi è il consumatore tipo?

Hacker è per tutti coloro che vivono un po’ ai limiti del sistema, che siedono tutta la notte al computer, che magari non fanno neanche sport: insomma un pubblico ben diverso da quello di Redbull o Monster, con i quali i “nerd”, che pure hanno spesso bisogno di restare svegli, non si identificano in nessun modo.

Dove si trova Hacker?

Attualmente, oltre che in Germania, si trova in Vietnam, Cina, Ungheria, Francia, Myanmar, Svizzera, Austria e Russia. In questi posti l’’azienda ha venduto, in un anno, diversi Milioni di lattine, senza aver speso un euro in pubblicità!

E tu, Alessandra, come entri in questa storia?

Sono un’abruzzese DOC, cresciuta a formaggio fritto e arrosticini; dopo aver sostato per il mio percorso di studi all’Università di Bologna, mi sono trasferita a Lipsia per un tirocinio in camera di commercio. Lì ho conosciuto la titolare di Hacker, che vuole entrare anche nel mercato tedesco e italiano, e ha bisogno di una mano.

Qual è la tua strategia di comunicazione per Hacker?

Appena iniziato a lavorare per l’azienda, ho ritenuto necessaria innanzitutto la costruzione di un sito Web, al momento è un work in progress, e poi un minimo di presenza sui social media, in particolare Instagram. Lavoro per l’azienda da un paio di mesi e il lavoro da fare è tanto: sono decisissima a entrare nel mercato italiano anche perché noi mediterranei, che beviamo meno gassato e meno dolce dei nordici, possiamo apprezzare ancora di più Hacker che è appunto meno dolce, meno frizzante e contiene molte più vitamine della concorrenza. Ho mandato una dozzina di cartoni di prova in Italia e le persone che hanno provato i nostri energy, così come la nostra cola limo, sono impazzite. Insomma, è un qualcosa che può funzionare.

Hacker Space Startup-News

Ma si parla solo di energy drink?

Dopo gli energy drink abbiamo inserito altri prodotti, come le pasticche di caffeina e le classiche zuppe istantanee che vanno fortissimo in Est Europa, ma che non porterei nel mercato italiano per ovvie ragioni… Al momento stiamo producendo in collaborazione con un’azienda italiana i croissant Hacker alla fragola, al cioccolato e – attenzione, attenzione! –  al formaggio: i nordici non aspettano altro per la loro colazione salata.